martedì 31 dicembre 2013

Courmayeur a tallone libero

Sulle piste di sci a fine anno c'è un gran casino che non mi va di raccontare.
Però io sto imparando a sciare a tallone libero e in questo gran casino sono uno dei pochi.
In questo gran casino non posso interagire con nessuno. Tutti corrono, così impegnati a scendere il più velocemente possibile a valle. L'unico con cui mi scambio un gesto di saluto è un anziano. Siamo in un fuoripista insieme. Lenti. Entrambi a tallone libero. Io gli passo davanti, con una curva ampia. Mi fermo. Lo guardo e ci sorridiamo, alziamo una mano in segno di saluto. Riparto verso valle, concentrandomi per sentire ogni curva sotto i piedi e inginocchiarmi sulla polvere che ricopre questi monti.
Poi, due argentini, anzi quattro. In telemark cercano di portare verso valle su una pista affollatissima i due loro figli, in braccio. Mi fermo affianco a loro. Ci salutiamo. Gli chiedo se hanno bisogno di aiuto. No, grazie, ma due chiacchiere fanno sempre bene. Sono di Mendoza, nel deserto alle pendici dell'Aconcagua. "Non ti preoccupare, scendiamo all'argentina." Sembra ancora possibile riconoscersi, seppur in mezzo a tutto questo gran casino.
E, in seggiovia, due americani del Colorado che hanno un agriturismo in toscana. Mi dicono che la neve del Colorado e dello Utah è impressionante, ma le montagne di qui sono uniche. Ci scambiamo gli indirizzi email. Dopo due discese li incontro di nuovo sulle piste. "Vai benissimo!" mi dicono, "e hai iniziato a fare telemark da così poco! Bravo!". Peccato, però, che non avessero visto affatto come fossi sceso, quanto e come mi fossi inginocchiato, a che velocità fossi andato. Avevano sparato una cazzata come un'altra, insomma, in mezzo a tutto questo gran casino.

Mi sa che anche il prossimo anno lo farò fuori pista, si. E a tallone libero. Qualcuno vuole unirsi?

In treno verso nord


Mi piace viaggiare in treno in Italia più che altrove e stavolta ne ho capito il perché.
Perché viaggiando verso nord, o sud, si respira la diversità e il contrasto tra ogni chilometro e il successivo.
Il 29 Dicembre parto da Termoli, saluto i miei genitori sui binari, e il mare molisano, pochi metri più in la. Subito si stagliano le montagne innevate dell'Abruzzo, a nord-Ovest. La Maiella, Il Gran Sasso. sublimi. Si stagliano sui pendii ondulati delle campagne che arrivano sull'Adriatico. Poi le Marche. Passiamo sotto il santuario di Loreto e infiniti paesini che diventano subito Emilia-Romagna, Bologna e poi la pianura Padana. Cambio treno a Milano e sono sul treno verso Chivasso, e poi Ivrea e Aosta. In perfetto orario. Le Alpi cominciano a stagliarsi all'orizzonte.
È quasi il tramonto. Il Monte Rosa, il Cervino e il Monte Bianco sono sovrastati da una linea rosso fuoco e mi appaiono come un profilo elegante e perfetto, logico, umano e trascendente. Venere è l'unica luce che si vede nel cielo. Si sta abbassando sull'orizzonte per andare a nascondersi dietro questi monti. È la dea della bellezza e non potrebbe far altro che tuffarsi in questo viaggio, in questa terra da cui sono nato e che mi ospita. 
Nella mia vita, questo è il posto più bello del mondo. 

Sulle nevi di casa a tallone libero


Ogni anno, da 15 anni, torno a casa per le feste di Natale.
Ogni anno spero ci sia neve da sciare sui pendii di casa.
Ogni tanto c'è e io mi ci vado a divertire, insieme a qualche amico.
Quest'anno, il 27 Dicembre, io e mio padre andavamo in macchina verso la nostra casa in campagna, alle pendici del Matese. Dopo due giorni di brutto tempo il cielo cominciava ad aprirsi e rivelava quel pezzo della cresta del Matese che corre da Monte Mutria fino a Campitello matese: bianco, carico di neve che risplendeva sotto il sole del primo pomeriggio. Era chiaro che il giorno dopo saremmo dovuti andare a sentirla sotto gli sci e a ricostruire la coppia sciistica Del Sordo&Del Sordo, che proprio su quelle nevi cominciò la propria esistenza nel 1990, o nel 1991, non ricordo.

Così il 28 dicembre, dopo aver raccattato sci, guanti, giacche e quant'altro in borse varie disperse tra armadi di casa e garage, eccoci diretti, mio padre ed io, in direzione Matese, con in testa di fare due ore di sci.
Per me è uno dei primi giorni di sci a tallone libero. "Telemark", proprio come una regione del sud della Norvegia. È il primo giorno di telemark sulle nevi di casa, a poco più di mezzora di macchina da Campobasso. Mi sembra un nuovo inizio. Quella dell'inizio è una sensazione particolare che non sento possa essere forzata. Una di quelle che c'è o non c'è. Bene, quel giorno c'era.
Eppure erano due semplici ore sulle piste dietro casa. Mio padre era un po' teso, forse per le piste affollate, forse perché da quasi due anni non usava scarponi e sci, forse perché sapeva che il giorno dopo io sarei ripartito verso nord. Sulla prima seggiovia, La Piana, occorreva sciogliere il ghiaccio.
Così mi è venuto spontaneo osservare un piccolo e lieve pendio, pendio dove facemmo le prime curve sugli sci tanti anni fa. Ora non era nemmeno battuto, al lato della pista Lavarelle. Un angolino pieno di ricordi, soprattutto per me che, appena messi gli sci, anni fa, dissi "Non se ne fa niente, smetto, non è per me." Insomma, dico a mio padre: Guarda quel pendio, ci sembrava così impossibile fare due curve lì, così faticoso e interminabile risalirlo a scaletta, ed invece non è nient'altro che una sputata insignificante, se visto da quassù."
Arrivati in cima, inizia per me la prima discesa a tallone libero sul Matese. Mi piace scendere a tallone libero perché mi costringe ad inginocchiarmi ad ogni curva, come una genuflessione alla montagna che mi ospita, alla neve che mi accoglie, al cielo perché ne mandi dell'altra. Inizio la discesa e sento di scendere bene, fluido, seppur sulle pendenze dolci della Lavarelle. Mi sento così sicuro che passando affianco al pendio dove iniziai a sciare decido che, beh, è un posto adatto per fare le prime curve fuoripista sul Matese, e mi ci butto. Mi accoglie bene: alla prima curva cado, che è pure la mia prima cauda a tallone libero. Cado e penso che pure su un pendio del genere ho ancora da imparare. E l'avevo definito una sputazza!
Mio padre intanto fa le sue curve concentrato per ritrovare movimento e sensazioni. e per non cadere, certo.

Non potrebbe essere altro che una storia di cadute, questa.
La caduta che poi ho fatto alla fine del canalone della Del Caprio, proprio quando sentivo di averne capito la giusta interpretazione mi parte lo sci sinistro, mentre cercavo di inginocchiarmici su. Mi parte e mi rigiro su me stesso, gli sci mi tirano a valle nella loro corsa sulla pista, io mi rigiro e mi fermo e, si, è ovvio che io debba cadere su questi pendii. Ora è chiaro.
La prima sciata telemark, pochi giorni prima, sulle nevi di Roccaraso con il mio compagno di sogni a tallone libero, Dario, era stata di controllo. Ero riuscito ad evitare cadute riuscendo a restare sulle mie gambe per tutto il tempo. Ora, invece, mi ritrovo col culo sulla neve.

Caduta uguale poi nel canalone dell'Anfiteatro. Lo sci sinistro ancora non riesco a controllarlo quando sono inginocchiato, non riesco a sentire la pressione sotto la punta del piede, mi manca ancora la sensibilità. E di nuovo gli sci prendono il sopravvento e mi tirano a valle come io non vorrei. Mi rimetto all'impiedi, respiro. Sono tutto integro, contento. Mio padre è a fare le sue curve da qualche altra parte, io riprendo con il mio movimento di genuflessione tutto da imparare.

Il tempo, poi, di mandare a cagare un ragazzo che cade a folle velocità e quasi mi investe, ed è già ora di tornare verso casa. Il pranzo ci aspetta. 
Ci lasciamo alle spalle la nostra montagna, innevata e soleggiata e, davanti, le nuove curve su questi pendii che ci aspettano in futuro.

giovedì 26 dicembre 2013

Su come prendere un aereo - edizione parigina

Altro episodio della saga: come prendere un aereo.

Decollo previsto: ore 11:55, Aeroporto di Orly, del 20 Dicembre 2013.

Sveglia programmata: 7.50
Mi chiedo, appena sveglio, perché abbia messo la sveglia a quell'ora.
Ore 7.55: Mi ricordo che devo prendere l'aereo per tornare a casa.
Ore 7.56: Decido che è ancora troppo presto per alzarmi.
Ore 8.40: Decido che forse è ora di alzarmi dal letto.

Ore 8.45: Risoluzione di problemi esistenziali sotto la doccia.
Ore 8.50: Risolti i problemi esistenziali, decido di passare a quelli pratici relativi alla preparazione del viaggio.

Ore 8.55: Un caffè aiuta a concentrarmi sui problemi pratici. Sorseggiarlo contemplando la città come appare dalla mia finestra aiuta a godermi il caffè.

Ore 8.57: È il caso di cominciare a vestirsi.

Ore 8.59: è il caso di cominciare a pensare di preparare i bagagli. Avrei dovuto farlo ieri sera, ma non mi andava, come sempre.

Ore 9.00: Faccio mente locale di ciò che mi devo portare. Materiale da scialpinismo, fotografia, astrofisica. Vestiti e spazzolino da denti. Passaporto. Patente. 
Ore 9.02: I vestiti che ho addosso sono abbastanza. A casa ne troverò degli altri.

Ore 9.07: Zaino pronto.
Ore 9.08: Realizzo di aver dimenticato lo spazzolino da denti.
Ore 9.09: Zaino pronto.

Ore 9.10: Realizzo che dovevo chiedere un rimborso sul pianoforte comprato due mesi fa, e che devo farlo entro il 31 dicembre, in Francia. L'ultima possibilità, in buona sostanza, è oggi.

Ore 9.11: Momento di sconforto. Forse non ce la farò. Fine momento di sconforto.

Ore 9.12: Raccatto i documenti necessari al rimborso, sperduti tra mille fogli nello zaino che era già chiuso. Mi rendo conto che manca un fantomatico codice a barre che dovrebbe essere sulla scatola del pianoforte.
Ore 9.13: Forse mi serve un altro caffè. No, meglio cercare il codice a barre.
Ore 9.16: Dopo aver girato almeno 30 volte i 6 lati della scatola del piano, una cassa alta circa due metri, trovo il codice a barre.
Ore 9.19: Due minuti per staccarlo senza distruggerlo. Ma: a che indirizzo devo spedirlo? trovo l'indirizzo scritto in microcaratteri su uno dei documenti da inviare. Dovrò comprare una busta da qualche parte e trovare una cassetta della posta.

Ore 9.20: Richiudo lo zaino, pronto per uscire.

Ore 9.21: Un ultimo controllo a casa, controllo che ritenevo inutile, mi dice che ho dimenticato la spazzatura e del latte e del pane. 

Ore 9.22: Prendo le due cose, decido di dare il pane e il latte a un mendicante che è sempre appostato di mattina all'ingresso della metro di Bastille. Esco, consapevole di aver dimenticato qualcosa e che non è detto che l'aero aspetterà me.

Ore 9.23: Parlo in italofrancoinglese con il tipo del tabacchino sotto casa per dirgli che mi serve una busta e un francobollo. Metto i documenti nella busta e la chiudo. Hey! un momento, che ci fa il codice a barre che dicevo prima ancora fuori dalla busta??? Riapro la busta, inserisco il codice a barre e la richiudo. Il tabaccaio mi guarda con gli occhi a forma di punto interrogativo. 

Ore 9.24: Invio la busta, vado alla metro, lascio latte e pane al (presumibilmente) senzatetto, mi fermo a fare due chiacchiere con lui. 

Ore 9.26: Prendo la metro, arrivata giusto in tempo per me.

Ore 9.36: Cambio a Place d'Italie in direzione Marie d'Yvry. Decido di prendere la strada più lunga per l'aeroporto perché la più economica. Non ho la minima voglia di spendere 9 euro di Orlyval, un trenino di 6 minuti che connette la RER B all'aeroporto di Orly. Né, tantomento, ho voglia di prendere la RER B, che mi fa già imprecare ogni giorno per i suoi ritardi sulla via verso il mio posto di lavoro.

Ore 9.50: Scendo a Porte de Cluchy, trovo il 183 già pronto alla partenza verso l'aeroporto. Mi fermo a fare due foto ad un palazzo che mi piace tantissimo, proprio di fronte alla stazione dell'autobus.
Ore 9.52: Perdo l'autobus, che mi parte davanti agli occhi.

Ore 9.53: Faccio un'altra foto al suddetto palazzo, aggiungendo in primo piano un albero che rende il tutto ancora più interessante ai miei occhi.

Ore 9.59: Prendo il 183 verso Orly.

Ore 10.12: Inizio a scrivere questo post sull'autobus.

Ore 10.24: Una ragazza con un trolley che è nell'autobus con me scende ad una fermata. Io, distratto dallo scrivere, penso che forse siamo già in aeroporto, dato che l'unica persona nell'autobus con un bagaglio sta scendendo lì.
Chiudo tutto e in un istante scendo dall'autobus. In due istanti mi rendo conto che quello non è l'aeroporto, che quella ragazza sta scendendo lì per una qualche misteriosa ragione e che sono nel bel mezzo di una banlieu di Parigi. Risalgo sull'autobus. L'autista dell'autobus mi guarda con la stessa faccia del tabaccaio.
Ore 10.25: Riprendo a scrivere il post.

Ore 10.44: L'autobus 183 finisce la sua corsa a Marie d'Orly, e non sono ancora all'aeroporto. L'autista mi dice di scendere e aspettare il prossimo bus alla stessa fermata.
Ore 10.49: Arriva un bus, ma è anche questo a fine corsa.
Ore 10.49: Manca un'ora e cinque minuti alla partenza e ancora non ho idea di dove sia l'aeroporto.
Ore 10.49: Comunque sia ho la carta d'imbarco e solo bagaglio a mano. Ho le spalle coperte. Apro il computer alla stazione dell'autobus e continuo a scrivere questo testo. Mancano ancora 6 minuti all'arrivo del bus per l'aeroporto, o almeno questo è quanto dice la tabella elettronica alla fermata dell'autobus. L'ho vista solo adesso.

Ore 10.56: Arriva l'autobus, guidato da una simpatica donna di colore.
Ore 10.57: La direzione dell'autobus è quella opposta alla mia destinazione! Ma, misteriosamente, passerà anche per la mia destinazione. Bah.
Ore 11.15: Arrivo all'aeroporto di Orly, terminal Sud. La mia certa d'imbarco dice che l'imbarco chiude alle 11.25. Secondo me è una cazzata.

Ore 11.25: Dopo aver attraversato un aeroporto affollatissimo e passato i controlli, arrivo all'imbarco. La coda è ancora lunga. Sono in anticipo. Posso scrivere le ultima righe di questo post e poi mi rilasserò in volo. Direzione: casa.

giovedì 19 dicembre 2013

Memories of Uganda


(dedicated to those special folks I traveled with)

Do you remember?

Do you remember when you landed in Uganda? what were you feeling at the beginning of those two weeks  in the Land of Beauty? What did you think of Kampala? For some of us this was the first time we traveled in a continent different from that in which we were born. For me it was the first time in Africa.

Do you remember the first meal together, how we were trying to plan everything and how everything tuned out to be always different from what planned?

Do you remember that huge amount of pasta cooked in a very small pot in the kitchen of Nuno's room?

Do you remember the mouse running in the room of king Gomesi the first? 

Which of the thousands smiles you have seen will you remember? Do you remember the one of the girl after seeing sunspots? or the laughing while translating from english to a local language? or the happiness of hugging each other after a day spent speaking about the sky?

Do you remember the serious conversations we had, when each of us was speaking her or his own language? The Babel-GalileoMobile Uganda edition in Portugues, Brazilian, French and Italian.  Il était muito legal, davvero.

Do you remember when Phil gave birth to the 
"Istrunomy Under The Same Sky" ?

Do you remember when we were sitting with one foot in the southern hemisphere, and the other in the northern?

Do you remember when we had to depart and that feeling " this is gonna happen again."? Nobody spoke it, but we all shared it.

Do you remember "When are you going back to the moon?" "How long does it take to go to Mars?" "Why is the sky blue?" "Why is the night dark?" "What does GalileoMobile mean?"

Do you remember the Matoke?

Do you remember the camaleont  walking on our hands and harms in the forest near Sipi Falls? He would have liked to be one of us, one of those guys who try to change color every day, one of those guys who try to adapt themselves to all the students, schools, people encountered day after day.

Do you remember Pati showing the "Pale Blue dot"? Nuno explaining how long bacteria can survive on the rocks on the Moon? Phil and Fabio playing flute and drums in the courtyard of Manafwa college? Maria Serena and Domenico giving filming lessons?

Do you remember how important was to be a team, to feel and rely on the support of all GalileoMobile?

Do you remember those little models of the Solar System we placed in Uganda? Look, if the Solar System were so small, and if it were really be placed in Uganda, the closest star to the Sun, Proxima Centaury, would be sitting somewhere on the coastline of Brazil, or in Kathmandu. Do you think we can believe in the possibility that some human will cross half Africa and an Ocean, one day in the future? 

Do you remember how extraordinary was the time we spent in Uganda?

Will you remember to keep sharing your life with the most exceptional among the people you have met under our unique sky? 

domenica 8 dicembre 2013

Su "The road not taken"

Probabilmente non c'entra niente con questo blog, come del resto nessuno dei post precedenti, ma mi sono ritrovato a commentare una poesia e un film con un amico e appunto qui quanto gli ho scritto.
La poesia è "The road not taken", di Robert Frost. 
Il film è "Dead Poets Society", di Peter Weir. ("L'attimo fuggente", in italiano)
Gli ultimi tre versi della poesia sono citati nel film da uno dei protagonisti, il professore John Keating.

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Robert Frost - The road not taken

Two roads diverged in a yellow wood,
And sorry I could not travel both
And be one traveler, long I stood
And looked down one as far as I could
To where it bent in the undergrowth;

Then took the other, as just as fair
And having perhaps the better claim,
Because it was grassy and wanted wear;
Though as for that the passing there
Had worn them really about the same,

And both that morning equally lay
In leaves no step had trodden black.
Oh, I kept the first for another day!
Yet knowing how way leads on to way,
I doubted if I should ever come back.

I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I —
I took the one less traveled by,
And that has made all the difference.


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"Dead Poets Society", film simbolo.
"The road not taken", grande poesia.

Eppure, ti devo confessare:
secondo me quella poesia, o meglio, quei versi citati, sono il punto debole di Dead Poets Society.
Ossia: quei versi sono probabilmente tra i più famosi della poesia nordamericana del 1900.
Però sono ambigui, e Keating, nelle poche parole che spende per descriverli, ciò non lo dice.
Dovrebbe parlarne di più. Io immagino che lo faccia, in una di quelle parti della storia che il film non mostra.
Però nel film non lo fa. Perché?

Sono versi ambigui perché, leggendo la poesia "The road not taken", non si capisce se siano detti in termine di rimpianto oppure di possibilità, soddisfazione.
Robert Frost stesso pare abbia detto, a proposito di questa opera:

"One stanza of 'The Road Not Taken' was written while I was sitting on a sofa in the middle of England: Was found three or four years later, and I couldn't bear not to finish it. I wasn't thinking about myself there, but about a friend who had gone off to war, a person who, whichever road he went, would be sorry he didn't go the other. He was hard on himself that way." 

Al di là di quanto lui possa aver detto - perché la poesia è poi diversa da qualsiasi commento se ne possa fare, anche se il commento viene dall'autore stesso - nella poesia sono presenti due parole: "Sorry" e "Sigh". A me comunicano piuttosto il rimpianto di non averle potute percorrere entrambe, quelle due strade, così descrivendo la sofferenza nella scelta quotidiana che si presenta nelle vite umane, nel dover fare scelte da cui non poter tornare indietro, piuttosto che un elogio della strada "less traveled by", meno segnata.
O, addirittura, questo testo mi comunica un senso di rimpianto per sentire la pressione di dover fare, ad ogni istante, una scelta, quando invece molte delle scelte che facciamo nel quotidiano sono del tutto ininfluenti sul nostro futuro.
In fondo, Frost scrive che
"Though as for that the passing there
Had worn them really about the same"
cioè che sono più o meno la stessa cosa, e, inoltre, quella mattina non c'era traccia di passaggio di nessuna persona su nessuna delle due, come il poeta scrive all'inizio della terza strofa.

Ancor di più, pare che la differenza di cui parla Frost nell'ultimo verso del poema, la differenza che l'aver preso la strada meno percorsa ha poi avuto sulla vita del protagonista del poema, possa essere una differenza in negativo, ossia una differenza che non gli abbia consentito di vivere felice. Altrimenti perché scrivere
"I shall be telling this with a sigh" ?
Le strade meno segnate sono spesso luoghi difficili, pieni di trappole che richiedono grandi sforzi per essere evitate e superate. Un po' come le strade ben segnate, del resto.

In Dead Poets Society, invece, Keating presenta i tre versi finali come una esortazione a percorrere le strade meno segnate, a lasciare da parte quelle conosciute e battute dalla maggioranza, perché percorrere le strade meno segnate fa la differenza.
Ecco, io mi trovo d'accordo con Keating, ma non è questo il messaggio che "The road not taken" vuole mandare.
Se ci pensi, il titolo stesso del poema si riferisce alla strada non intrapresa, mentre ignora la strada che si è scelta. Senza considerare che un titolo che includa una negazione mi fa pensare ad un rimpianto, piuttosto che ad un elogio.

Ad ogni modo, un po' come una giornata di sole, o di pioggia, quella poesia è lì e ognuno può usarla, leggerla e lasciarsene ispirare come meglio crede e sente. 
Una poesia penso percorra la strada che le sarà naturale percorrere nell'animo del lettore, o, addirittura, ne traccia una nuova, oppure, come io preferisco, ne cammina una esistente ma nascosta, trascurata e piena di erbacce, che richiede solo di essere riscoperta.

venerdì 6 dicembre 2013

Bajo Un Mismo Cielo

Bajo un mismo cielo - GalileoMobile first documentary



This movie has influenced quite a lot my life.
It is a documentary.
It is called: Bajo Un Mismo Cielo.
Under The Same Sky, in english.
Sotto Lo Stesso Cielo, in italian.
It tells something of an idea that helped in keeping me alive in these last five years.
The idea, and turning it into reality.

I like it because it tells a story which is a beginning, and I like beginnings.
Take a look from beginning till end and enjoy.

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Esta película ha influenciado mucho mi vida.
Es un documental.
Se llama: Bajo un Mismo Cielo.
Under The Same Sky, en inglés.
Sotto Lo Stesso Cielo, en italiano.
Habla de una idea que me ha ayudado a estar vivo durante los últimos años.
La idea, y su trasformación en algo real.

Me gusta porque cuenta una historia que es un inicio, y me gustan los inicios.
Mirenlo todo y disfruten.

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Questo film ha influenzato molto la mia vita.
È un documentario.
Si chiama: Bajo un Mismo Cielo.
Under The Same Sky, in inglese.
Sotto Lo Stesso Cielo, in italiano.
Parla di una idea che mi ha aiutato a sentirmi vivo negli ultimi anni.
L'idea, e la sua trasformazione in realtà.

Mi piace perché racconta una storia che è un inizio, e mi piacciono gli inizi.
Guardatelo tutto, dall'inizio alla fine, e godetevelo.

venerdì 29 novembre 2013

Quand'è che ho bisogno di partire

Quand'è che ho bisogno di partire
sono egoista e non c'è altro
che scappare da me stesso, mentire
e intravedere uno spiraglio
in cui non sono, ma sarò.

Le nuvole rotolano nel cielo
e chi alla finestra le guarda veleggiare
mai ne conosce la nascita, la partenza,
mai ne pensa lo sbocciare,
né di un fiore fantastica il viaggio.

Così oggi io vado, per cercare
quel mondo che mi dicono aspettarmi,
di osti che aspettano il viandante,
di vie abitate da chi non parte.


Quand'è che ho bisogno di partire
vorrei ridiventare me stesso
laddove più lontano da me
io mi possa ritrovare.

sabato 23 novembre 2013

Appunti su Parigi #3 - Salle Pleyel

La storia precedente era il racconto dell'andare a lavoro, la mattina.
Ora, invece, è sempre 14 novembre e dal lavoro sto uscendo. Tutto già programmato: metro, lezione di yoga, metro, cena e relax serale a casa. Invece no.
So che stasera c'è Maurizio Pollini che suona Chopin e Debussy alla Salle Pleyel, qualche centinaia di metri dall'Arco di Trionfo. Non ho i biglietti. Internet mi dice che sono finiti, nessun posto disponibile.
Scambio un po' di email con Sara e mi rendo conto che non è possibile che l'unica cosa che io possa tentare, l'unica strada che conosca, sia quella di consulate un sito web. Pollini suona a Parigi pezzi che io sogno da una vita, preludi,ballate,studi e sonate di Chopin, la Cathédrale Engloutie e la Fille aux cheveux de lin di Debussy, e io non posso andarci perchè una pagina web mi dice che non è possibile.
Ma come ho fatto a finire così ingabbiato? Però parlare con mia sorella mi ispira a fare un atto rivoluzionario: telefonare. Fà, tu e i tuoi metodi antichi, su internet c'è tutto, anche di più di quanto non ci sia su internet e tu ti ostini a telefonare. Pollini lo riascolterai da qualche sito web mentre sei seduto davanti al tuo computer ed è lo stesso.
No, telefono. Mi risponde una ragazza dalla voce bellissima che parla inglese senza problemi dopo che io le ho detto in un francese singhiozzante che no, io non so parlare francese. Certo che ci sono ancora biglietti, il più economico e il più caro solamente, ma i biglietti ci sono ancora. Figuriamoci, se internet non sa neanche se ci sono ancora i biglietti per il concerto di Pollini, allora è ben lontano dal sapere tutto. Compro un biglietto e ritorno a scambiare mail con mia sorella per perdere un po' di tempo a crogiolarmi nell'idea che tra un paio di ore sarò seduto di fronte ad uno dei pianisti mito ancora viventi. Perdo tempo e si fa tardi, ma l'esaltazione cresce. Suonerà Chopin e Debussy su uno Steinway nella Salle Pleyel e io non sto nella pelle.
Saluto Sara, torno a casa, barba, doccia, camicia, giacca e sono pronto per uscire. Ma Parigi è grande e i tempi li ho calcolati bene giusto per un pelo. La linea 1 che mi porta fino a Charles De Gaulle - Etoile è infinita. E, una volta lì, dovrò ancora cambiare e prendere la 2 fino a Ternes. Proprio sotto l'Arco di Trionfo, scendo per cambiare linea di metro e ho poco meno di 5 minuti da aspettare. Passo frettolosamente davanti ad un signore anziano che suona il violino a pochi metri da dove prenderò la metro verso la Salle Pleyel. Bach, stentato, con errori, ma Bach. Io mi ipnotizzo, in pochi istanti. La gente continua a corrermi davanti, ma la scena è tutta di questo signore, con un giubbotto verde, sciarpa, occhiali, capelli bianchi, seduto su uno sgabellino a suonare il suo violino che emerge sul suono orchestrale che un piccolo amplificatore al suo fianco emette per completare l'opera. Probabilmente vuole arrotondare la sua pensione, o non ne ha una e non riesce ad arrivare a fine mese, o solamente vuole suonare e non sprecare il suono in una casa vuota o nella quale si rischi di disturbare i vicini. Vuole un pubblico, pagante o meno. Si, io l'ho immaginato così: un pensionato che nel tempo libero fa il suonatore di strada, perchè i suoi nipoti sono lontani e non può passare il suo tempo con loro.
Cosa c'è di strano in una persona che suoni della musica per strada? perchè questa non è una pratica diffusa in tutte le città ma, anzi, gli artisti di strada sono spesso visti nient'altro che come mendicanti? Mentre guardavo questo signore impegnato nelle sua musica, e distratto dal mondo che gli correva attorno, mi sono sentito proiettato nel futuro. In un futuro in cui la maggior parte delle persone penserà che la musica è un qualcosa prodotta da aggeggi elettronici che portiamo in tasca e non è consapevole che può essere suonata da esseri umani, in cui si sarà forse persa la conoscenza per produrre strumenti musicali acustici e quei pochi rimasti saranno preziosissimi e rarissimi e gli uomini che suonano ai bordi delle strade o nelle metropolitane saranno visti come rimasugli del passato o come ultima memoria di un passato più umano.
La metro sta per arrivare e io sono in ritardo. Devo ancora trovare la Salle Pleyel, che non ho idea di dove sia, ritirare il biglietto e concentrarmi prima dell'inizio del concerto. Ma penso che posso prendere la metro successiva. Solo tre minuti in più, per continuare ad ascoltare questo Bach da metropolitana. Sono tentato. Arriverò tardi e perderò probabilmente tutto il primo tempo di Pollini, ma ne vale la pena.
Però la metro arriva e io devo decidere in un attimo e sono risucchiato nel fiume che entra nel treno e va dritto per la propria strada e Bach rimane un ricordo lontano che sfuma e poi viene tagliato dalle porte che si chiudono.
Arrivo alla mia poltroncina in quinta fila dieci minuti prima che Pollini inizi il Preludio op. 45 di Chopin. Avrei quindi avuto il tempo di ascoltare tre minuti in più del violino del pensionato col giubbotto verde.
La sala è piena di gente che aspetta, o che non è affatto interessata, di giovani che ascoltano e guardano ogni nota e di chi forse va ad ascoltare musica classica per la prima volta in vita sua. La sala mi ricorda la Berwaldhallen di Stoccolma, dove ascoltai la Quinta di Shostakovic una domenica di settembre di un paio di anni fa, ma è meno bella di quella. E poi non sopporto la gente che non sa quando applaudire ad un concerto di musica classica. Dico: se non sai quando applaudire lascia fare agli altri, no?
Pollini non è quello di una volta, sembra insicuro e a volte spaventato, o incazzato col pianoforte. Ma il concerto fila liscio e alla fine lui si rilassa con due bis spaventosi, lo studio Rivoluzionario e soprattutto la ballata n. 1 di Chopin, che vorrei che Sara si materializzasse lì affianco a me per esaltarci insieme.

Esco. Il tempo di vedere due idioti che erano seduti dietro di me buttare per strada a terra delle cartacce, passare affianco ad un paio di senzatetto accartocciati davanti all'entrata di due negozi nel tentativo di passare una notte non troppo fredda, e sono sulla via di casa.

Appunti su Parigi #2 - La metro di Place d'Italie

La ragazza dai lunghi capelli rossi. Pelle chiarissima. Un leggero trucco sugli occhi.
Sciarpa di lana grossolana, verde. Cappotto di lana misto a canapa, credo, grezzo, con molto marrone ma tanti colori che sbocciano e affogano nell'intessitura. Immersa nel suo libro di Victor Hugo.
Ha gli occhi verdi, immagino. Non riesco a guardarglieli. Mani semplici, senza smalto. Nessun anello all'anulare sinistro, né al destro. Un anello dorato al mignolo destro.
Scarpe con tacchi, non molto alti, aperte sul collo scarpa così da far vedere le calze scure che le salgono su per le gambe. I capelli le scendono fin sotto il seno. Lunghi. Di continuo fa scorrere le sue mani su di essi.

La vedo non appena arrivo sul marciapiede al binario della metro di Place d'Italie. Sta leggendo. Mi metto affianco a lei ad aspettare il treno. Victor Hugo. La metro di Parigi è piena di persone che leggono. È piena di persone che ascoltano musica ed è vuota di persone che parlano. Credo anche che sia vuota di persone che osservano. Ognuno mi sembra solo una perla che scorre trasportata dal fiume verso una direzione che crede di conoscere e della quale pensa di conoscere il perché.
Legge victor Hugo, il libro è scritto in francese, ma non ne riesco a scoprire il titolo. Legge, i suoi occhi mi sembrano un'estensione delle sue gambe, che si vedono e si nascondono nelle calze semitrasparenti, e non posso fare a meno di notare un rumore che, in quel contesto, è fuoriluogo. Mi sembra qualcuno che sta russando.
La metro di Parigi è, in buona sostanza, un tubo scavato nella terra. Anzi, metà tubo, essendo il suo fondo piatto. È un tubo tagliato a metà, longitudinalmente, con due treni che vi scorrono in mezzo e le persone che corrono aspettano si baciano salutano incontrano o ignorano il mondo sui marciapiedi al lato di essi. Mentre aspetto il treno e sono affianco alla ragazza con i capelli rossi che legge Victor Hugo, sono, quindi, al di sotto di una volta che sorregge la città per far scorrere le persone in sotterranee quotidianeità. Nel punto in cui mi trovo il soffitto è poco più alto di me e dietro di me si trovano le sedie pensate per fare aspettare i treni nella comoda posizione seduta. Seggiolini appoggiati su un alto gradino piastrellato che sembra il bagno di casa mia, colorato di rosso. Dietro di esse, la volta scende e diventa parete, prima di fondersi con il fondo piatto del tubo tagliato in longitudine. E, se alla mia sinistra la lettrice dai lunghi capelli rossi continua a sfogliare le pagine del suo Vicor Hugo, dietro di me, alla mia destra, un uomo occupa due seggiolini una buona parte del loro sostegno piastrellato di rosso, steso, per dormire, riposare, russare, far scorrere la sua giornata riparato dal freddo, sottoterra. Russa, e il suo russare rimbomba in quel tubo gigantesco che diventa ora cassa di risonanza. È un suono grave, intenso e penetrante, che risalta sullo scarso vociare, vibra sui ronzii che riempiono la metro, un rumore che attira l'attenzione della gente che guarda e poi guarda altrove. Io faccio lo stesso. Guardo, e poi guardo altrove. Guardo di nuovo e non so cosa fare. Parigi è piena di senzatetto, ad ogni angolo, ogni fermata della metro, Così come è piena di gente che cammina corre e passa, guarda e finge, si chiude e diventa parte del fiume. Come me.
Il russare aumenta. Mi sembra il battito del cuore rivelatore di Edgar Allan Poe, che aumenta e diventa forte, insostenibile finchè l'uomo che lo ha sepolto non può fare a meno di arrendervisi. Ma questo non è un romanzo, e così il russare viene spazzato via dall'arrivo del treno con il suo rumore devastante, che lo copre e lo sotterra ancor di più, che riporta l'attenzione dei passanti sul percorso da loro prestabilito, sulle proprie giornate, i propri doveri che non posso arrivare tardi se no crolla il mondo, un rumore che fa girare il senzatetto sull'altro fianco per non disturbare i lettori della pensilina, nè i turisti, gli impiegati, gli uomini e le donne d'affari, gli astronomi o altre identità lì di passaggio. Io ritorno nel fiume e confluisco nel treno. Vedo scorrere via l'uomo disteso sulla panchina e vedo sedersi accanto a me la lettrice dai capelli rossi. Nella metro c'è silenzio. Lei continua ad accarezzarsi la seta rossa che le scende fin sotto al petto. Molti si guardano le scarpe o si autoipnotizzano nel proprio telefono intelligente, o smartphone, che pare essere un affare che succhia l'intelligenza dagli occhi e la trasferisce dietro lo schermo. Ce l'ho anch'io. Ma non lo tiro fuori in quel momento. Ho tre fermate prima di Place Monge e penso proprio che la ragazza dai capelli rossi scenderà dopo di me. Si è seduta comodamente, come avesse un lungo viaggio davanti, mentre io sono all'impiedi, aspettando quasi freneticamente di uscire dal tubo e riemergere sulle strade di Parigi, e chiedendomi incosciamente se la lettrice scenderà alla mia stessa fermata, chiuderà il libro e mi permetterà di scoprire il colore dei suoi occhi. Invece lei si alza prima di Censier Daubenton, una fermata prima della mia, si alza mantenendo il libro in modo tale che il suo sguardo possa rimanervi immerso. Si alza e si mette affianco a me. Sembra voglia dirmi: guarda, leggi anche tu. Io leggo un paio di righe e poi le vedo allontanarsi davanti a me, confluire nel fiume che riemerge in superficie e dissolversi nel flusso, smettere di essere letteratura e diventare, come tutto il resto, rumore.

martedì 5 novembre 2013

Appunti su Parigi #1 - Île Saint-Louis

Sarà per caso o casualità.
Dovevo perdermi, dicevo. Mi sono perso, allora. Sono tuttora perso.
Parlo a rantoli. Mi sposto a scatti. Cambio direzione ogni istante.
Sento l'istante per ciò che in realtà è. Un qualcosa che sta lì a pressare, spingere, che sta per arrivare ed eccolo, sta lì per arrivare, si, mi mette pressione, mi spinge e soffoca e illude nel suo continuo essere in arrivo, mi mette in continua attesa e in fittizia ricerca.
Mi incalza, vuole che diventi me stesso o chissà cos'altro.
L'istante annuncia il proprio giungere per poi arrivare in un tempo e spazio che io ho già lasciato.
L'istante mi fa girare tutt'attorno a seguire le linee dei vortici caotici dei desideri, mi fa cambiare direzione ed incrociare la mia solo casualmente.
Mi ipnotizza e mi fa perdere, nel goffo tentativo della sua cattura. Si. Mi fa perdere, per caso.
E per smaltire la sbornia riparto da ciò che riconosco.

Île Saint-Louis è il primo posto di Parigi in cui ho avuto la sensazione di rendermi conto di dove fossi.
Stavo camminando, alla mia destra il fiume.
"Questa sensazione l'ho già avuta.", mi sono detto.
La sensazione di essere su un'isola.
Un'isola circondata da un fiume in corsa verso l'oceano, anche se l'oceano da qui non si vede ed è nient'altro che un'idea lontana, di sconfinato e misterioso.
Camminavo su Quai de Béthune: mi è sembrata, d'un tratto, una strada che avesse un senso che io ero autorizzato a riconoscere. Un lungofiume su un'isola.
Così il mio racconto, il perdermi e ritrovarmi, non può che iniziare da qui.
Da un'isola, laddove non pensavo ce ne potessero essere.

sabato 12 ottobre 2013

Angoli

Ci sto mettendo un po' ad ambientarmi a Parigi. Abituato al nord, e poi al sud, disabituato alla citta'.
No, e' che qui non ci avevo mai vissuto. A Parigi ci passi da turista e intuisci qualcosa di speciale, ti sembra abbia una forma ben definita, e odori, consistenza. Invece non e' così, perché per capirla, per trovare quelle forme e odori, il senso tattile di superfici ruvide e calde, devi prima perderti, e il perdersi richiede tempo, e poi accade in un istante.
Ora che scrivo ho già in mente di uscire, tra poco, e perdermi. Ma so di non poterlo programmare, cosi  per lo meno mi preparo, scrivendo, ad aprire gli occhi e a lasciarmi andare nelle strade di questa vecchia citta', nuova casa per me.

Di Parigi mi piacciono le strade che si incrociano con angoli di tutte le ampiezze, e che sembrano, o forse sono, fatte apposta per ospitare bar, ristoranti, boulangerie. Ci sono gli angoli molto aperti, che per passare da una strada all'altra non devi quasi svoltare, e questi si prestano a grandi negozi, ristoranti ariosi. Gli incroci piu' stretti, quelli che in cui i palazzi arrivano con nient'altro che uno striminzito spigolo, quelli sono perfetti per i bar con pochi tavolini davanti, dove fermarsi per un caffe' o una birra veloce; dove, quando non piove, o se hanno un bel tendone a proteggerti, ti puoi sedere a uno dei classici tavolini rotondi che affollano gli incroci di qualunque tipo e passarci il pomeriggio con il tuo libro preferito, o pochi minuti con il libro, sbagliato, del momento, o una mattinata con una tipa appena conosciuta o una serata con un amico a parlare di qualunque cosa. Quindi direi che, si, i locali di Parigi posso classificarli un po' dagli angoli in cui si trovano. Certo, ci sono anche tanti, tanti locali che sono banalmente lungo una strada, che hanno una vetrina semplice, lineare, come ovunque nel mondo, con davanti uno striminzito marciapiede da cui, durante le mie passeggiate, mi diverto a incrociare gli sguardi con gli avventori seduti proprio al di la' della vetrata.

Ora, sto parlando di angoli, neanche di architettura, anche perché chi ne capisce niente di architettura!
Ma da qualche parte dovevo pure iniziare. Sembra che su Parigi tutto sia stato scritto e descritto, fatto e disfatto, visto e rivisto, quindi non posso far altro che iniziare da cio' che vedo io e rimettermi a scrivere per non perdere l'attimo e l'esercizio. Arrugginito che non sono altro, si vede tra gli spazi tra una parola e l'altra (che poi gli spazi, come le parole, sono sempre gli stessi).
Gli angoli, dicevo, per adesso, e anche in futuro, credo. Poi verranno le persone, i mercati, il jazz e tutto il resto.
Prima, pero', occorre perdersi, altrimenti non potrò raccontare come ho fatto a ritrovarmi.

giovedì 10 ottobre 2013

Discussioni

Oggi, finalmente, ho visto di nuovo, dopo anni, due professori quasi litigare tra di loro in Universita'.

O meglio, non litigare, ma esprimere il loro punto di vista con chiarezza, senza problemi, senza timore di essere scortesi, ma solo con la necessita' di essere chiari, nella sostanza e nella forma, senza timore di offendersi a vicenda.

In Svezia tutto cio' mi era mancato. Li' nessuno litiga, non so perche', o almeno io non ho visto nessuno farlo.

Non poteva che accadermi nel cuore di Parigi, nel centro. Che bello.

In between

I was back in Paris and it was still dark. The airport was still sleeping, and so was I.
The city was still sleeping. Not a noise, not a car, a few people walking silently on the sidewalks and in the underground corridors of the metro. Too early in a Sunday morning.
Two backpacks hanging on my shoulders, one covering my back, the other lying on my chest and belly.

This was the exact moment in between two travels, the one just ended, but of which I still feel the weight on my shoulders, and the one starting, pulling me ahead towards experiences I am still unaware of. In the middle, a sleeping Fabio, dazed and confused, happy and sad, full and empty, transparent and opaque, as always and everywhere in my words, in my swirling around two opposite poles, north and south, in the daily twisting also known as life, the perpetual action of leaving and being left.

domenica 6 ottobre 2013

Yet another turn

I left Paris in the late afternoon just before the autumn equinox. A night flight over Europe, the Mediterranean and northern Africa brought me to Addis Ababa, Ethiopia. From there, after a coffee at the airport, another flight to Entebbe, Uganda. Only a one hour taxi journey away from meeting my friends Phil, Nuno, Pati, Domenico and María Serena and then starting the adventure again.


I received my visa, a stamp on that little notebook called passport, which allowed me to set my feet on the Ugandan territory. I put on my cap and sunglasses and, one minute after, my backpack and I were outside the airport, freely strolling in a land I had never touched before.
How will this experience work out? Will I be good enough to contribute in a meaningful way to GalileoMobile’s activities? To play my role in this journey? Will our travel make sense for the people we are going to meet and work with?
That stamp on the passport, that one day in future will hopefully be the memory of a great on-the-road experience, in that very moment became the motivation to adapt my slow-thinker attitude to a fast-moving world, to the enthusiasm of children and teenagers with whom I am going to share that wonderful experience that astronomy is.
As I approach the exit of the airport, the Ugandan air disguises itself amidst memories of the first GalileoMobile expedition and images from the Kaghol Rath expedition to India in 2012, and it mixes with my expectations, doubts and desires.
No matter whether or not I am good enough for what has yet to come: it will anyway do.

martedì 17 settembre 2013

Intermezzo #4

Per molto tempo ho fatto diradare le parole su queste pagine.
Non mi andava di scrivere. Oppure lo facevo, ma altrove. Perché, si, in fondo per me lo scrivere é composto non solo dal "cosa scrivo" e "come lo scrivo", non solo dal "quando lo penso", dal "perché lo scrivo", dal "dove sono quando mi é venuto in mente e dove ero quando l'ho scritto", da " a chi voglio farlo leggere" e "questo voglio che lo capisca solo una persona, o due".
Mi sono reso conto, e ce ne ho messo, di tempo! che conta anche dove imprimo le mie parole.
Banale, si.
Quindi, niente, finisce che tanti appunti vanno persi, scritti su tovaglioli di carta o agendine che poi chissá che fine fanno, o in files dimenticati su qualche penna usb che chi-lo-sa-dove-l'ho-messa?

Poi ci sono quelli che finiscono, come tanti, del resto, sui server del grande fratello Google, sul blog, online, nei post e in altri neologismi vari che anch'io mi ritrovo ad usare come cornici dei miei scarabocchi. Sembra che questi appunti siano gli unici che scriva.
Si, sembra anche a me a volte. Guardo il mio stesso blog e dico: ma che ca..o ho fatto che non scrivo da due mesi? o da tre?
Magari ho fatto che non mi andava, sai, quei periodi che la scrittura é inutile e non serve neanche prendere appunti, perché finiscono solo col ricordarti pensieri e cose inutili, rumorose.

Insomma, alla fine continuo a tenere questo blog mezzo aperto, mezzo chiuso, lento o veloce, ispirato o traspirato o espirato, e le poche persone che lo leggono, mi chiedo, cosa capiscono di me?
Ma perché, cavolo, si, alla fine il blog parla di me, fabiocentrico. Si, parla di me e della parte di me che vuole finirvi su. A volte è, in tutta semplicitá, vuota, assente o altrove. A volte approssimativa.
Lascia gli appunti inconclusi e inconcludenti.

lunedì 2 settembre 2013

Cartolina


Dieci anni fa feci un viaggio a Parigi. Dopo un po' scrissi le mie impressioni in una email a un po' di amici. Già esistevano le mail dieci anni fa. Questa mail, intitolata "Cartolina", di tanto in tanto la rileggo. Per sentire il più possibile il presente e poterlo ricordare in un altro presente di certo diverso da quello immaginato. Mi è ricapitato di leggerla adesso, proprio quando a Parigi ho deciso di viverci per un po' della mia vita.

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Scale. Ritorno salendo le scale della metro a Place de la Concorde, si apre davanti a me uno spettacolo familiare ma non conosciuto, previsto ma sempre imprevedibile.

Una parte di me, in realtà, non si è mai mossa da qui negli ultimi quasi 5 anni. E non tardo a ritrovarla. Poco a poco, un sorso alla volta e solo quando ne ho sete, una carezza alla volta, ma solo quando sono triste.
La prima è proprio lì, sguardo nel vuoto, vestiti eleganti e capelli pettinati, barba incolta e maniche impolverate, seduta su quelle scale sporche di attimi vissuti quasi a volerle renderle più belle, a volermi accogliere nella migliore delle maniere, a farsi credere una benestante del luogo. Ma non aspettava altro che il mio ritorno, e io il suo, nella mia vita un po' più vuota in qualche zona neanche tanto nascosta. Mi prende sotto braccio, mi regala un sorriso che da tempo teneva in serbo per me e io subito lo rendo ad Ilaria, lo metto in mani più sicure.
Così inizia il mio passeggiare lungo i maestosi Champs Elyèes, ogni volta più grandi, ogni volta più verdi e ogni volta più familiari. Fortunatamente stavolta anche meno dolorosi e sanguinanti....
....davanti la Maison de la culture du Japon à Paris, all'ombra della torre, una forte tristezza mi assale, vorrei entrarci, forse no e alzo la mano e saluto da lontano un Fabio sorridente sul marciapiede davanti l'entrata, e ovatto i miei grigiori con il verde del parco in cui è incastonata la Tour, che ne spunta fuori come la lama di una spada da un manico intarsiato a mano, lavorato a fondo solo per far spuntare lei e per rimanere, discreto, nella sua silenziosa eleganza.
Silenzio. Così ho gustato Paris, tra i suoi innumerevoli giochi musicali, artisti di strada, con le sue splendide luci, silenziose tutte per farsi sentire più forte. Silenzio e ricordi. Silenzio e progetti. Silenzio. Per sentire il più possibile il presente e poterlo ricordare in un altro presente di certo diverso da quello immaginato. Ogni strada è nuova, più grande la scalinata che innalza la Nike di Samotracia, più grande la stanza singola della Gioconda, con tanti quadri a fungere da suppellettili, più strette e tortuose le vie di Monmatre e meno rosso l'orizzonte dal Sacre Coeur. E' meno alba che allora, è meno tardi e gli occhi sono più aperti ma meno attenti, occhi adatti a queste irripetibili giornate di maggio e non più a vecchi giorni d'agosto. Il sonno è passato appena alzatomi dalla panchina davanti la Prefettura, dopo aver boicottato quelle davanti Notre Dame. Rivedere quella piazza, quasi misera rispetto alle altre sorelle parigine, mi ha dato la sensazione di averla vissuta, di averla avuta nelle mie mani mentre forse sognavo altro in quella mattinata post - insonnia. Un posto in cui dormi è sempre particolare. Ti accoglie indifeso dal mondo e proiettato nella tua intimità più profonda. Ti porta con se senza che tu lo veda. A me stupido 19enne sembrava di essere invincibile e di potermi difendere anche nel sonno, a me stupido 24enne sembra di aver rivisto una mamma che ti copre gli occhi dalla luce al risveglio mattutino per farti
vedere il suo dolce volto in controluce. Una città che incombe su di te con la sua bellezza ma scompare per lasciar posto alle persone che la vivono, come nei miei ricordi.
E' solo la finestra che mi fa affacciare sul giardino da cui i miei amici mi chiamano per andare a giocare con loro.
Ai miei amici di Paris, ai miei Amici,
A Giovanni.

mercoledì 7 agosto 2013

Nepal - A documentary

During last months I have been traveling some parts of Asia.
Here you can find a documentary on the part of my travel that was shared with my friend Luca, to Nepal.

Nepal - A documentary

We feel this is only the first step of a long journey ahead.

Enjoy!

lunedì 22 luglio 2013

Nepal - Un documentario

Dal viaggio fatto in Nepal con Luca negli scorsi mesi abbiamo tratto un documentario, con lo scopo di raccogliere un po' di fondi per le scuole nepalesi, e di raccontarvi la nostra esperienza.
Lo trovate qui:

Nepal - Un documentario

Buon viaggio!

lunedì 10 giugno 2013

Canto d'attese e incontri erranti

Scintillan mute le stelle
nei cieli di plenilunio
dei miei giorni solitari,
cosi', a te Luna, parlo e chiedo: 
credi esista un pastore, un saggio
che mi narri dove nascono i binari
sui quali rotolo inquieto
sin da un giorno di meta' maggio?
E, degli incontri che anelo
e schivo indifferente,
che adocchio e afferro a bruciapelo,
quali son miraggi,
e quali approdi d'umanita', viaggi?

Ho dovuto finora
perdermi e ritrovarmi
da solo, lasciandomi
giacere con la schiena
ad aggradarsi sulla curva Terra

per cercarmi nel cielo,
dove piu' m'oriento
e piu' mi smarrisco,
sospeso il mio percorso
tra lo scintillio del cibo
e il disgusto delle feci.

Ho dovuto nutrirmi
della merda nella mia testa.
Mi piaceva, me la gustavo
fino alla nausea, ingozzarmi
credendomi a una festa
di cui ero l'ospite, e lo schiavo.
Cosi' ubriaco delle mie paure
da sembrarmi impavido
m'agiravo assente, pallido
a serrar tutte le chiusure
al mondo, al Sole, alle creature
che mi amavano. Vomitai:
quell'orripilante essere, me stesso,
era appena rinato.

Ho dovuto scopare
le peggiori puttane,
cercare il sale e leccare
le loro gemme malsane,
le grandi bocce
flaccide dal tanto palpare
fino a sbagliare la presa
sui pericoli sinuosi
dei fianchi, vicoli tortuosi
alle labbra di fuoco e seta,
e divenir persona arresa:
l'amore e' affanno d'una folle meta,
e' ritorno a una casa
da cui mai sono partito,
e' pioggia tempestosa
su un percorso sconosciuto
e poi il levarsi delle nubi
a illuminar vallate d'un profilo mai vissuto.



Ho dovuto aspettare prima di scrivere e cantare
queste rime dissonanti.
Delle strofe fuori tempo
mi piace la marea
che suscitano, scombussolate
onde alla rinfusa
crescono, mareggiate,
uomini in cambusa
che le attraversano ignari
e certi che la dea e musa
dei peregrinaggi non avari
riservi, infine, la quiete,
seppur solo in un piccolo lembo
d'acqua, d'oceano, di sete.


Vivrei da re sapendo d'essere
quel pastore ch'incontra
e parla con te, o Luna,
che fatica, suda, scontra
il suo errare sulle brune
linee dei viandanti di montagna
con la quiete smarrita il di' natale.
Cosi' ora ti domando, Luna, il mio malessere:

Perche' l'uomo dedica il suo tessere
a specchiarsi e rispecchiarsi
sempre nel proprio essere?
a credersi tutto anziche' nulla, all'amarsi?
a rifiutar cio' che non sia perdersi?

So, Luna, che a questi lamenti
non trovero' sollievo, ma solo stenti
sia su monti o creste fascinose
che tra le fogne piu' disgustose.
E tra filosofi, operai o mendicanti
e tra le capre a zonzo col pastore,
o con lui stesso, nei desideri erranti
d'esser poeta invece che poesia.

La tela ricamata sulle vie
del nostro mondo
e' solo la mia indecifrabile firma.

martedì 26 marzo 2013

Uraoaru


Una volta, non tanto tempo fa, esisteva una razza di uccello marino dal nome che nessuno ricorda.
Aveva grandi ali piumate che cambiavano forma al cambiare del vento. La sua struttura era così mutevole da renderlo resistente a qualsiasi libeccio o maestrale, ma al contempo così delicata da frantumarsi in qualsiasi pioggia.

Si librava in alto durante la notte, si camuffava nel buio del cielo serale e spiccava il volo quando il tramonto era ormai lontano nel tempo e ben prima che il sole potesse riapparire all'orizzonte.
Si nutriva dei pesci che nuotano nelle burrasche invernali dei mari nordici e oziava in letargo durante le lunghe giornate estive, quando il lasso di tempo tra alba e tramonto è così breve da non consentire un volo d'adeguata bellezza, respiro e durata.

Questo uccello dalle grandi ali verdi, con striature blu e rosse, viveva circa undici anni e nasceva alla morte della propria madre. Una razza orfana per la sua stessa natura, priva di cure parentali. Una razza di figli unici, e della quale ogni generazione non riceveva eredità alcuna dalla precedente.

Uno studioso che viveva a Öns, un'isola dell' arcipelago di Nemloh, aveva dedicato la propria vita alla ricerca del significato dei suoni che questi uccelli emettevano. Questo studioso, il cui nome è andato perso assieme a quello dell'uccello, era stato pescatore fino alla scomparsa del padre, risucchiato dalle acque durante una battuta di pesca in un grande fiordo dalle correnti troppo agitate.
Del padre ricordava la bocca spalancata come a urlare, ma nei suoi ricordi non v'era nient'altro che il continuo scrosciare delle onde oceaniche sulla prua del peschereccio, come un rumore che ricopriva le urla del padre e mandava all'oblio i suoi primi undici anni di vita.

Aveva continuato a lavorare su pescherecci per altri undici anni.

Dopo di che, smise di pescare per commercio, vendette la sua casa a un petroliere, e si mise in viaggio, sulla sua barca, alla ricerca del padre, vivendo di ció che pescava e scambiando spesso il suo pescato con cibo degli abitanti delle isole visitate durante il proprio peregrinare.
Il buio delle notti oceaniche lo aveva avvicinato molto a questo uccello, presenza pressoché costante dei suoi viaggi notturni, fino al punto che il pescatore riuscisse a decodificare i segnali inviatigli dall'uccello e a costruire, con quei suoni, vere e proprie strutture rassomiglianti a quelle di un linguaggio.

Quando era ormai vecchio, ma mai stanco, gli erano rimasti pochi scogli da visitare nel nord dell'oceano Atlantico, e comunicava con nessun altro che l'uccello notturno. Fu così che, dopo una giornata di abbondante pesca, ritornò a Öns, ancorò il peschereccio al largo della sua isola natale per undici giorni e scrisse un trattato completo sul linguaggio usato dall'uccello. Elencò tutte le parole che era riuscito ad imparare e a tradurre, descrisse la struttura basilare della lingua con cui l'uccello comunicava.

Poi, nei successivi undici giorni, usò tutto ciò per scrivere un racconto.

Scoprì, quando il racconto fu finito, che l'uccello non conosceva la parola "madre", e che lui non gli aveva mai parlato, nei loro dialoghi, di suo padre.
Fu cosí che aggiunse una parola al dizionario, unendo i due suoni che significavano "origine" e "vita". Uraoaru sarebbe stato, fin da allora, il nome con cui l'uccello sarebbe stato conosciuto nel mondo, e il suono che significava "madre", nella lingua del volatile.
Era anche il titolo del racconto del pescatore.

Tutto questo mi fu raccontato, nient'altro che pochi giorni fa, da una vecchia signora di Öns, che avevo raggiunto dopo ventotto ore di navigazione notturna, durante le quali mi era sembrato anche di scorgere il volo dell'uccello dalle ali verdi.

Mi disse che fu lei a ritrovare i libri, tra i relitti di un peschereccio che si era schiantato, privo di timone e timoniere, nel porticciolo.

Mi disse che riconobbe la calligrafia.

Mi disse che suo figlio era sordo, e mi disse di tornare a casa. ``Sempre'', mi disse.

 
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