venerdì 29 novembre 2013

Quand'è che ho bisogno di partire

Quand'è che ho bisogno di partire
sono egoista e non c'è altro
che scappare da me stesso, mentire
e intravedere uno spiraglio
in cui non sono, ma sarò.

Le nuvole rotolano nel cielo
e chi alla finestra le guarda veleggiare
mai ne conosce la nascita, la partenza,
mai ne pensa lo sbocciare,
né di un fiore fantastica il viaggio.

Così oggi io vado, per cercare
quel mondo che mi dicono aspettarmi,
di osti che aspettano il viandante,
di vie abitate da chi non parte.


Quand'è che ho bisogno di partire
vorrei ridiventare me stesso
laddove più lontano da me
io mi possa ritrovare.

sabato 23 novembre 2013

Appunti su Parigi #3 - Salle Pleyel

La storia precedente era il racconto dell'andare a lavoro, la mattina.
Ora, invece, è sempre 14 novembre e dal lavoro sto uscendo. Tutto già programmato: metro, lezione di yoga, metro, cena e relax serale a casa. Invece no.
So che stasera c'è Maurizio Pollini che suona Chopin e Debussy alla Salle Pleyel, qualche centinaia di metri dall'Arco di Trionfo. Non ho i biglietti. Internet mi dice che sono finiti, nessun posto disponibile.
Scambio un po' di email con Sara e mi rendo conto che non è possibile che l'unica cosa che io possa tentare, l'unica strada che conosca, sia quella di consulate un sito web. Pollini suona a Parigi pezzi che io sogno da una vita, preludi,ballate,studi e sonate di Chopin, la Cathédrale Engloutie e la Fille aux cheveux de lin di Debussy, e io non posso andarci perchè una pagina web mi dice che non è possibile.
Ma come ho fatto a finire così ingabbiato? Però parlare con mia sorella mi ispira a fare un atto rivoluzionario: telefonare. Fà, tu e i tuoi metodi antichi, su internet c'è tutto, anche di più di quanto non ci sia su internet e tu ti ostini a telefonare. Pollini lo riascolterai da qualche sito web mentre sei seduto davanti al tuo computer ed è lo stesso.
No, telefono. Mi risponde una ragazza dalla voce bellissima che parla inglese senza problemi dopo che io le ho detto in un francese singhiozzante che no, io non so parlare francese. Certo che ci sono ancora biglietti, il più economico e il più caro solamente, ma i biglietti ci sono ancora. Figuriamoci, se internet non sa neanche se ci sono ancora i biglietti per il concerto di Pollini, allora è ben lontano dal sapere tutto. Compro un biglietto e ritorno a scambiare mail con mia sorella per perdere un po' di tempo a crogiolarmi nell'idea che tra un paio di ore sarò seduto di fronte ad uno dei pianisti mito ancora viventi. Perdo tempo e si fa tardi, ma l'esaltazione cresce. Suonerà Chopin e Debussy su uno Steinway nella Salle Pleyel e io non sto nella pelle.
Saluto Sara, torno a casa, barba, doccia, camicia, giacca e sono pronto per uscire. Ma Parigi è grande e i tempi li ho calcolati bene giusto per un pelo. La linea 1 che mi porta fino a Charles De Gaulle - Etoile è infinita. E, una volta lì, dovrò ancora cambiare e prendere la 2 fino a Ternes. Proprio sotto l'Arco di Trionfo, scendo per cambiare linea di metro e ho poco meno di 5 minuti da aspettare. Passo frettolosamente davanti ad un signore anziano che suona il violino a pochi metri da dove prenderò la metro verso la Salle Pleyel. Bach, stentato, con errori, ma Bach. Io mi ipnotizzo, in pochi istanti. La gente continua a corrermi davanti, ma la scena è tutta di questo signore, con un giubbotto verde, sciarpa, occhiali, capelli bianchi, seduto su uno sgabellino a suonare il suo violino che emerge sul suono orchestrale che un piccolo amplificatore al suo fianco emette per completare l'opera. Probabilmente vuole arrotondare la sua pensione, o non ne ha una e non riesce ad arrivare a fine mese, o solamente vuole suonare e non sprecare il suono in una casa vuota o nella quale si rischi di disturbare i vicini. Vuole un pubblico, pagante o meno. Si, io l'ho immaginato così: un pensionato che nel tempo libero fa il suonatore di strada, perchè i suoi nipoti sono lontani e non può passare il suo tempo con loro.
Cosa c'è di strano in una persona che suoni della musica per strada? perchè questa non è una pratica diffusa in tutte le città ma, anzi, gli artisti di strada sono spesso visti nient'altro che come mendicanti? Mentre guardavo questo signore impegnato nelle sua musica, e distratto dal mondo che gli correva attorno, mi sono sentito proiettato nel futuro. In un futuro in cui la maggior parte delle persone penserà che la musica è un qualcosa prodotta da aggeggi elettronici che portiamo in tasca e non è consapevole che può essere suonata da esseri umani, in cui si sarà forse persa la conoscenza per produrre strumenti musicali acustici e quei pochi rimasti saranno preziosissimi e rarissimi e gli uomini che suonano ai bordi delle strade o nelle metropolitane saranno visti come rimasugli del passato o come ultima memoria di un passato più umano.
La metro sta per arrivare e io sono in ritardo. Devo ancora trovare la Salle Pleyel, che non ho idea di dove sia, ritirare il biglietto e concentrarmi prima dell'inizio del concerto. Ma penso che posso prendere la metro successiva. Solo tre minuti in più, per continuare ad ascoltare questo Bach da metropolitana. Sono tentato. Arriverò tardi e perderò probabilmente tutto il primo tempo di Pollini, ma ne vale la pena.
Però la metro arriva e io devo decidere in un attimo e sono risucchiato nel fiume che entra nel treno e va dritto per la propria strada e Bach rimane un ricordo lontano che sfuma e poi viene tagliato dalle porte che si chiudono.
Arrivo alla mia poltroncina in quinta fila dieci minuti prima che Pollini inizi il Preludio op. 45 di Chopin. Avrei quindi avuto il tempo di ascoltare tre minuti in più del violino del pensionato col giubbotto verde.
La sala è piena di gente che aspetta, o che non è affatto interessata, di giovani che ascoltano e guardano ogni nota e di chi forse va ad ascoltare musica classica per la prima volta in vita sua. La sala mi ricorda la Berwaldhallen di Stoccolma, dove ascoltai la Quinta di Shostakovic una domenica di settembre di un paio di anni fa, ma è meno bella di quella. E poi non sopporto la gente che non sa quando applaudire ad un concerto di musica classica. Dico: se non sai quando applaudire lascia fare agli altri, no?
Pollini non è quello di una volta, sembra insicuro e a volte spaventato, o incazzato col pianoforte. Ma il concerto fila liscio e alla fine lui si rilassa con due bis spaventosi, lo studio Rivoluzionario e soprattutto la ballata n. 1 di Chopin, che vorrei che Sara si materializzasse lì affianco a me per esaltarci insieme.

Esco. Il tempo di vedere due idioti che erano seduti dietro di me buttare per strada a terra delle cartacce, passare affianco ad un paio di senzatetto accartocciati davanti all'entrata di due negozi nel tentativo di passare una notte non troppo fredda, e sono sulla via di casa.

Appunti su Parigi #2 - La metro di Place d'Italie

La ragazza dai lunghi capelli rossi. Pelle chiarissima. Un leggero trucco sugli occhi.
Sciarpa di lana grossolana, verde. Cappotto di lana misto a canapa, credo, grezzo, con molto marrone ma tanti colori che sbocciano e affogano nell'intessitura. Immersa nel suo libro di Victor Hugo.
Ha gli occhi verdi, immagino. Non riesco a guardarglieli. Mani semplici, senza smalto. Nessun anello all'anulare sinistro, né al destro. Un anello dorato al mignolo destro.
Scarpe con tacchi, non molto alti, aperte sul collo scarpa così da far vedere le calze scure che le salgono su per le gambe. I capelli le scendono fin sotto il seno. Lunghi. Di continuo fa scorrere le sue mani su di essi.

La vedo non appena arrivo sul marciapiede al binario della metro di Place d'Italie. Sta leggendo. Mi metto affianco a lei ad aspettare il treno. Victor Hugo. La metro di Parigi è piena di persone che leggono. È piena di persone che ascoltano musica ed è vuota di persone che parlano. Credo anche che sia vuota di persone che osservano. Ognuno mi sembra solo una perla che scorre trasportata dal fiume verso una direzione che crede di conoscere e della quale pensa di conoscere il perché.
Legge victor Hugo, il libro è scritto in francese, ma non ne riesco a scoprire il titolo. Legge, i suoi occhi mi sembrano un'estensione delle sue gambe, che si vedono e si nascondono nelle calze semitrasparenti, e non posso fare a meno di notare un rumore che, in quel contesto, è fuoriluogo. Mi sembra qualcuno che sta russando.
La metro di Parigi è, in buona sostanza, un tubo scavato nella terra. Anzi, metà tubo, essendo il suo fondo piatto. È un tubo tagliato a metà, longitudinalmente, con due treni che vi scorrono in mezzo e le persone che corrono aspettano si baciano salutano incontrano o ignorano il mondo sui marciapiedi al lato di essi. Mentre aspetto il treno e sono affianco alla ragazza con i capelli rossi che legge Victor Hugo, sono, quindi, al di sotto di una volta che sorregge la città per far scorrere le persone in sotterranee quotidianeità. Nel punto in cui mi trovo il soffitto è poco più alto di me e dietro di me si trovano le sedie pensate per fare aspettare i treni nella comoda posizione seduta. Seggiolini appoggiati su un alto gradino piastrellato che sembra il bagno di casa mia, colorato di rosso. Dietro di esse, la volta scende e diventa parete, prima di fondersi con il fondo piatto del tubo tagliato in longitudine. E, se alla mia sinistra la lettrice dai lunghi capelli rossi continua a sfogliare le pagine del suo Vicor Hugo, dietro di me, alla mia destra, un uomo occupa due seggiolini una buona parte del loro sostegno piastrellato di rosso, steso, per dormire, riposare, russare, far scorrere la sua giornata riparato dal freddo, sottoterra. Russa, e il suo russare rimbomba in quel tubo gigantesco che diventa ora cassa di risonanza. È un suono grave, intenso e penetrante, che risalta sullo scarso vociare, vibra sui ronzii che riempiono la metro, un rumore che attira l'attenzione della gente che guarda e poi guarda altrove. Io faccio lo stesso. Guardo, e poi guardo altrove. Guardo di nuovo e non so cosa fare. Parigi è piena di senzatetto, ad ogni angolo, ogni fermata della metro, Così come è piena di gente che cammina corre e passa, guarda e finge, si chiude e diventa parte del fiume. Come me.
Il russare aumenta. Mi sembra il battito del cuore rivelatore di Edgar Allan Poe, che aumenta e diventa forte, insostenibile finchè l'uomo che lo ha sepolto non può fare a meno di arrendervisi. Ma questo non è un romanzo, e così il russare viene spazzato via dall'arrivo del treno con il suo rumore devastante, che lo copre e lo sotterra ancor di più, che riporta l'attenzione dei passanti sul percorso da loro prestabilito, sulle proprie giornate, i propri doveri che non posso arrivare tardi se no crolla il mondo, un rumore che fa girare il senzatetto sull'altro fianco per non disturbare i lettori della pensilina, nè i turisti, gli impiegati, gli uomini e le donne d'affari, gli astronomi o altre identità lì di passaggio. Io ritorno nel fiume e confluisco nel treno. Vedo scorrere via l'uomo disteso sulla panchina e vedo sedersi accanto a me la lettrice dai capelli rossi. Nella metro c'è silenzio. Lei continua ad accarezzarsi la seta rossa che le scende fin sotto al petto. Molti si guardano le scarpe o si autoipnotizzano nel proprio telefono intelligente, o smartphone, che pare essere un affare che succhia l'intelligenza dagli occhi e la trasferisce dietro lo schermo. Ce l'ho anch'io. Ma non lo tiro fuori in quel momento. Ho tre fermate prima di Place Monge e penso proprio che la ragazza dai capelli rossi scenderà dopo di me. Si è seduta comodamente, come avesse un lungo viaggio davanti, mentre io sono all'impiedi, aspettando quasi freneticamente di uscire dal tubo e riemergere sulle strade di Parigi, e chiedendomi incosciamente se la lettrice scenderà alla mia stessa fermata, chiuderà il libro e mi permetterà di scoprire il colore dei suoi occhi. Invece lei si alza prima di Censier Daubenton, una fermata prima della mia, si alza mantenendo il libro in modo tale che il suo sguardo possa rimanervi immerso. Si alza e si mette affianco a me. Sembra voglia dirmi: guarda, leggi anche tu. Io leggo un paio di righe e poi le vedo allontanarsi davanti a me, confluire nel fiume che riemerge in superficie e dissolversi nel flusso, smettere di essere letteratura e diventare, come tutto il resto, rumore.

martedì 5 novembre 2013

Appunti su Parigi #1 - Île Saint-Louis

Sarà per caso o casualità.
Dovevo perdermi, dicevo. Mi sono perso, allora. Sono tuttora perso.
Parlo a rantoli. Mi sposto a scatti. Cambio direzione ogni istante.
Sento l'istante per ciò che in realtà è. Un qualcosa che sta lì a pressare, spingere, che sta per arrivare ed eccolo, sta lì per arrivare, si, mi mette pressione, mi spinge e soffoca e illude nel suo continuo essere in arrivo, mi mette in continua attesa e in fittizia ricerca.
Mi incalza, vuole che diventi me stesso o chissà cos'altro.
L'istante annuncia il proprio giungere per poi arrivare in un tempo e spazio che io ho già lasciato.
L'istante mi fa girare tutt'attorno a seguire le linee dei vortici caotici dei desideri, mi fa cambiare direzione ed incrociare la mia solo casualmente.
Mi ipnotizza e mi fa perdere, nel goffo tentativo della sua cattura. Si. Mi fa perdere, per caso.
E per smaltire la sbornia riparto da ciò che riconosco.

Île Saint-Louis è il primo posto di Parigi in cui ho avuto la sensazione di rendermi conto di dove fossi.
Stavo camminando, alla mia destra il fiume.
"Questa sensazione l'ho già avuta.", mi sono detto.
La sensazione di essere su un'isola.
Un'isola circondata da un fiume in corsa verso l'oceano, anche se l'oceano da qui non si vede ed è nient'altro che un'idea lontana, di sconfinato e misterioso.
Camminavo su Quai de Béthune: mi è sembrata, d'un tratto, una strada che avesse un senso che io ero autorizzato a riconoscere. Un lungofiume su un'isola.
Così il mio racconto, il perdermi e ritrovarmi, non può che iniziare da qui.
Da un'isola, laddove non pensavo ce ne potessero essere.
 
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