giovedì 30 gennaio 2014

Porto - A uno scrittore portoghese


Ho passato tre giorni a Porto
a rivedere amici e compagni,
ospiti naturali del mio viaggiare.
Ero curioso della tua terra, lo sai.

L'Oceano l'ho visto,
ma non l'ho fotografato.
Pioveva, e poi il rosso del tramonto.
Sembrava grande da lassù,
ma non so dirti quanto.
Ero un visitatore, non un abitante,
guardavo con occhi curiosi, sognante,
occhi stranieri senza radici.
Le onde sbattevano forti sui bastioni 
che reggevano il faro.
Vorrei abitare in un faro per un po', lo sai?

Dalla torre de los Clérigos i tetti diventavano 
disordinate mattonelle,
e su un piedistallo c'era la cattedrale.
Poi mi sono calato tra la gente
e ho visto le case che scendono nei vicoli
sul Douro, i panni stesi sotto la pioggia,
le signore lente sulle scalinate bagnate,
e quelle alle finestre, affacciate
alle torri di vedetta sulla vita della città.

Lisbona invece l'ho solo immaginata, 
come faccio da quasi vent'anni o forse meno.
Credi si possa misurare la nostra vecchiaia 
dal tempo che un'immagine spende tra i nostri sogni 
senza aver mai abitato la realtà?

Quanto c'è in questo mondo, amico!
E quanto lenti bisogna essere per scoprirlo.
E io che pensavo fosse tutta una corsa, ah se mi sbagliavo.
Si deve correre lenti, come a pronunciare il nome
della tua terra, che sembra lungo e veloce
e poi quasi si ferma: Portogallo,
un'arancia da sbucciare,
una terrazza sui confini del mondo immaginato dagli antichi
e su quelli del tuo animo.
Mille rotte partono da quelle coste sull'oceano:
non so il domani quale porterà,
una sola è quella giusta.
Dalla riva, il frastuono del mare la nasconde,
ma se saprai prepararti ed aspettare 
la vedrai limpida
stagliarsi tra le onde.

Eccola, è lì ! Che aspetti?

sabato 18 gennaio 2014

The Great Gig in the Sky


L'Orsa maggiore si staglia chiara nel cielo di nord est di Haiti, nelle prime ore della notte. The great gig in the sky. 
Giove è quasi allo zenit. Orione sta continuando la sua corsa verso ovest e si muove nel cielo con una inclinazione che non mi è familiare. Nei cieli dell'emisfero nord, a cui sono abituato, vedo il trapezio centrale della costellazione più bella del cielo terrestre un po' inclinato sulla sinistra nel cielo già scuro subito dopo il tramonto. Qui, invece, Orione è quasi sdraiato sul suo fianco sinistro e man mano che la notte va avanti sembra rimettersi all'impiedi. Un cacciatore che pian piano si rialza prima di essere ucciso dall'apparire dello Scorpione, e prima che il sorgere del Sole metta fine a tutte queste notturne storie fantastiche, che renda il cielo tutto uguale e confini il nostro sguardo entro i centocinquanta milioni di kilometri che ci separano da esso, impedendoci di spaziare per la vastità del nostro universo.
E poi, domani, dopo il tramonto, la Luna sorgerà ancora più tardi e sarà ancora più lontana da Giove, da Aldebaran e dalle Pleiadi, da Auriga, Il cocchiere nel cuore del cielo invernale. L'Orsa continuerà a splendere laggiù a nord ovest.

Mi addormento, intanto, su una sedia, sotto tutto questo cielo stellato. Riapro gli occhi. Immagino queste stelle del grande carro sempre lì nel cielo durante migliaia di anni, milioni di anni. Mizar, che non sa di essere una stella tripla. Anzi, addirittura sestupla, perché ognuna delle tre stelle è in realtà una stella binaria.  Mondi lontani nel nostro stesso mondo.

Eppure ciò che mi piace di più, attraverso le lenti del piccolo telescopio che ho con me, è la Luna, vederla stagliarsi come fosse parte del telescopio stesso. Quanto di più vicino a noi ci possa essere nella moltitudine delle meraviglie del cielo.
Oggi un bimbo mi ha detto che secondo lui, nel telescopio, c'era la Luna. Una bambina poi, forse per copiarlo, mi ha detto che pensava ci fosse il Sole. 
E le stelle? gli ho chiesto io. Dove sono?

Poi abbiamo smontato il telescopio e dentro non c'era un bel nulla. Un vetro ricurvo da una parte, due lenti piccole dall'altra. Un tubo vuoto nel mezzo.
Non ricordo se ho mai pensato che la Luna potesse trovarsi in un telescopio. Ricordo che non avevo la minima idea, molto tempo fa, di quanto grande fosse la Luna, dove fosse, dove fossero i pianeti e le stelle e le persone e le galassie e il cielo mi sono sempre chiesto, si, se con una scala grande di quella che usano i pompieri, o con tanti camion dei pompieri uno sopra l'altro, si, un camion posato in cima ad una scala, una pila di camion uno sopra l'altro, si potesse arrivare a scavalcare il cielo e a vedere cosa ci fosse dietro.
Come oggi, insomma, solo che oggi credo di saperne di più. Ma non è vero, perché possiamo misurare, dimostrare, capire e spiegare, ma non possiamo viaggiare le distanze interplanetarie e gli spazi interstellari e allora non possiamo sapere. Così i numeri ci fanno immaginare e ci fanno riuscire a programmare viaggi sempre più lunghi e immagino che presto qualche essere umano voglia viaggiare, si, fino a un altro pianeta e dire a tutti gli altri quello che ha visto. Però se voglio capire le distanze interstellari devo mettere su Interstellar Spaces di Coltrane, o Shine on you Crazy Diamond o The great Gig in the sky dei Pink Floyd.

Mi addormento sotto il cielo stellato e mi risveglio e so che non è vero niente, se non che quel grande carro nel cielo continui ad essere lì e a spostarsi durante la notte e a darmi come nient'altro la sensazione di un viaggio interstellare su una navicella rotante chiamata PianetaTerra.

Poi alcuni esseri umani sono riusciti ad andarci oltre quello strato blu che chiamiamo cielo. Non hanno usato i camion dei pompieri, forse perché ne sarebbero serviti troppi e poi saremmo rimasti, sulla Terra, senza camion sufficienti per spegnere gli incendi. Hanno pure costruito un albergo spaziale dove vanno ogni tanto per vedere la navicella spaziale PianetaTerra da lassù, e si dice che qualcuno si sia portato un gatto con se e che questo gatto ora viva nell'albergo spaziale e sia un gatto volante che fa le fusa senza sentire la forza di gravità.
Da lassù Orione cambia di continuo inclinazione e si sposta da destra a sinistra, e non saprei immaginarlo muoversi così perché l'ho visto sempre nella stessa posizione. Anzi, no. Mi ricordo che una volta ero in giro in un deserto e addirittura, laggiù, il cacciatore Orione era a testa in giù e guidava i suoi cani da caccia in maniera strana, correndo sempre e comunque lontano dal suo nemico Scorpione.
Il gatto spaziale, invece, dato che non ha topi da inseguire, si diverte a guardare le luci della navicella PianetaTerra che si spengono e accendono, le correnti aeree che girano e rigirano su se stesse e formano cicloni e tempeste e l'aurora boreale che cade sopra gli abitanti delle terre fredde, dove il Sole non manda tanta luce ma si diverte a disegnare archi verdi nei cieli notturni.

Mi addormento sotto il cielo stellato di pianeti e alberghi volanti e mi risveglio che mi sembra di essere in una estate di quando ero piccolo e mi addormentavo in spiaggia a vedere le stelle cadenti e mi risvegliavo che avevo sonno e freddo ma volevo rimanere ad addormentarmi e risvegliarmi per vedere le scie nel cielo. 

A quell'epoca, ricordo, volevo sempre guardare Andromeda. Avevo letto che fosse l'oggetto più lontano visibile ad occhio nudo. Due milioni di anni luce! Ma che vuol dire non l'ho mai capito. Però quando riuscivo ad inquadrare nel binocolo una macchiolina che sapevo essere questa galassia, allora si che potevo andarmene a dormire tranquillo. Si, cercavo Cassiopea e inseguivo le sue cinque stelle che formano una W, o una M, dipende sempre da come si legge. Le inseguivo e poi mi spostavo più in la, nella costellazione di Andromeda e da qualche parte trovavo una macchiolina che avevo letto che fosse addirittura una galassia gemella della nostra, la Via Lattea, miliardi di stelle che ruotavano tutte insieme e si erano pure organizzate per avere una forma di quelle fotogeniche, a spirale.
Ma che significa un miliardo di stelle luminose più o meno come il Sole? e come fanno ad essere nient'altro che una macchiolina invisibile nel cielo? 
Una volta, ma quella volta non mi addormentai, ero sotto un cielo che non ne ho visti di più limpidi, e di galassie se ne vedevano addirittura tre! ad occhio nudo, tre macchioline nel cielo brillavano sopra la mia testa ed erano, allora, almeno tre miliardi di stelle che si erano divise in tre gruppi differenti. Andromeda e le due nubi di Magellano.
Perché le stelle vogliano raggrupparsi e non ce ne siano di stelle che vadano in giro da sole per l'universo pare che non sia stato ancora capito. 

Però a furia di guardare il cielo ed immaginare in cosa trasformare quell'enorme senso di vuoto che un cielo stellato illumina nel nostro animo, le persone sono arrivate a figurarsi un cielo più pieno di quanto già sia. Si, perché il cielo che tutti immaginano è un cielo fatto di puntini luminosi e della Luna che vi scorazza in mezzo, ma quello che alcune persone possono già vedere è invece un cielo di stelle attorno alle quali ruotano altri pianeti, chissà, come la Terra. Le migliaia di stelle che vediamo a occhio nudo potrebbero avere, ognuna di esse, una famiglia di pianeti! e allora, quando ci sediamo in riva al mare o a bordo di una piscina o in cima ad un monte, e guardiamo in alto di notte, non stiamo più a guardare solo migliaia di stelle, ma stiamo guardando migliaia di sistemi planetari, decine di migliaia di pianeti che corrono a girotondo, ognuno attorno alla stella che per sempre ne cattura l'esistenza, finché morte non li distrugga.

Provo a proiettarmi su Proxima Centauri, la stella più vicina al Sole. Da lì, Cassiopea appare molto diversa, C'è una stella in più nella costellazione di Cassiopea, se vista da Proxima Centauri.
Quella stella è il Sole. Nella costellazione di Cassiopea vista da Proxima Centauri, si, il Sole è la stella più luminosa, e attorno a questa stella ruotano otto pianeti, asteroidi, comete e miliardi di esseri umani e miliardi di miliardi di altri esseri viventi.
Se abitassi su un pianeta in orbita attorno a Proxima Centauri, mi chiedo, non mi verrebbe voglia di scoprire cosa potrei trovare attorno al Sole?

Mi addormento di nuovo, salgo sul grande carro, The great gig in the sky che mi culla nel nostro viaggio senza direzione, insieme, l'uno di fronte all'altro.

mercoledì 8 gennaio 2014

Yet another turn #2

At home. My radio plays Sonata op. 109 by Ludwig Van Beethoven. Next to me, a book by Ernest Hemingway wants to be read before I fall asleep. Next to my bed, Paul Auster, George Orwell, Henri Miller, Douglas Hofstadter, William Butler Yeats, Cesare Pavese, Alejandro Jodorowski are yelling: you have started our books before and you left us half way or so: not funny, not smart.

Once more my empty backpack looks at me saying: man, I know, I will be the last one on the list. I am used to get packed not earlier than a few minutes before each departure, but you go nowhere without me.
It is like I love to pack things and emotions at the very last moment before any travel, to let them free before being packed. Or, more true and simple, to organize things on time is not my best skill, and I am someway at ease in being messy as much as I can.

My radio now plays the Moonlight sonata, op. 27 no. 2 and Ludwig Van someway knows my hands wish they could play it too. I know it too.

But it's about time to leave again, and leave my piano some kilometers away from me.
I will leave Paris on an afternoon of early January, take three flights, go to an island. Stretch myself to fit yet another turn into my memories.
Yet another turn on a mountain road, where one turn comes just after the other. Yet another turn on a skiing path and, yes, the skier, myself, still have to get used to crouch at every turn and then rush down the slope at ease, painting each turn as if it were the only he can draw and feeling how different it is from the ones his mind could only sketch out.


I write and it feels like being alive again. I would sit here all night long just writing what I have to write. But I realize it took me almost twenty minutes to write the last sentence.


On my radio, Maria João Pires is about to play the last notes of the third movement of the Moonlight sonata. 

martedì 7 gennaio 2014

Tropico del Capricorno - Solstizio a Sud


Quando il senso di mancanza arriva forte tendo a rifugiarmi nei ricordi e a ricercarvi ciò che non c'è nel presente. Non sempre funziona, ma a volte si. Stavolta ho ripreso un testo che era una mail, o meglio, una lettera in formato elettronico, indirizzata ad alcuni amici e persone che potevano capirmi, quattro solstizi di inverno fa, nel 2009, durante l'ultima notte del mio primo viaggio in Sudamerica. Ricordo che ero in ostello e sarei voluto uscire, godermi la notte di Buenos Aires. Ma avevo bisogno di scrivere, così rimasi a produrre queste righe che oggi sono un ricordo prezioso per me.
Le ho rilette e mi è venuta voglia di condividerle qui.

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Oggi arrivo a Buenos Aires in nave da Colonia. L'alba sul Rio de la Plata è stupenda, dà il senso dei grandi spazi e mi tiene sveglio fin dalle prime ore della mattina. Buenos Aires è calda e umida, un po' appiccicosa e quasi vuota nel suo traffico di inizio vacanze. Io faccio la lunga fila  per cambiare gli ultimi pesos uruguagi che mi sono rimasti in 150 pesos argentini ( sembra che i tipi che lavoravano al banco avessero problemi con divisioni e moltiplicazioni), poi mi dirigo alla metro.
Ho con me due zaini.

-" Per non sbagliare all'ultimo giorno prendi un taxi fino all'ostello, che te frega, 'n so' manco 5 euro".

E ho ragione. Fa caldo, in metro ci sara' il casino e io con i bagagli che mi sono portato appresso non mi muovo spedito. Al prossimo viaggio, cazzo, mi porto solo una maglietta e un pantalone. Addosso. Sempre sto zaino pieno di cose inutili che alla fine ti dimentichi pure di avere. Vabbe'.
Salgo su un taxi sgarrupato, che di ufficiale ha solo il colore, giallo e nero, e qualche numeretto impresso sulla portiera. Il tassista non mi piace da subito, e tantomeno il suo aiutante che non fa altro che chiedermi delle monete mentre salgo sul taxi. Io lo ignoro e ci mettiamo in marcia. La direzione è giusta, il tassista inizia a parlare, di dove sei, quanto tempo resti e le solite minchiate. Io intanto vedo di orientarmi nel reticolo di strade di Buenos Aires. So dove siamo, so dove dobbiamo andare e so che devo tenere gli occhi aperti. Con niente il tizio si ferma, sale qualcun altro in macchina e mi fotte tutto. Intanto lui salta allegramente la prima delle traverse avrebbe potuto prendere, poi la seconda e poi la terza. Il gioco e' chiaro, ed è classico, quindi gli dico:

-" Gira a sinistra"
-" Ah si, vero, si, posso girare anche qua"
-" Boludo hijo de puta" (penso).

 Sa che l'ho sgamato, mi costerà un peso in più, forse, quindi non gli dico più niente, anche se lui continua a fare il simpatico.
Intanto arriviamo all'ostello, lui cerca di fottermi un altro peso lasciando acceso il tassametro mentre io gli do i soldi, una banconota da 50. Mi dice:

-"Guarda, questa 50 è rovinata, non me la prende il banco, dammene un'altra"

 Io me lo voglio togliere di torno, pago con una cento, mi prendo il resto, i bagagli e buonanotte. Sono le 9, ho sonno, fa caldo e mi voglio togliere dalle palle ´sto cazzone. Voleva fottermi ma alla fine ha fatto tanto casino si e no per un peso.
Finalmente ho il tempo per farmi i cazzi miei. Rifare lo zaino che straborda di roba per il solito fenomeno della moltiplicazione delle cose. Andare a comprare frutta al mercato di San Telmo e gustarmi ciliege e albicocche. Andare a comprare Yerba mate da riportare con me in Italia. Ne compro uno sproposito (e spero di non dover fare un bagaglio speciale una volta all'aeroporto).
Pago con una banconota da 50 e il cinese del supermercato, in un castellano perfetto mi dice:

-"Es trucha"
-"Como es trucha?"
-"Si, mira, el papiel es diferente, el dibujo tambien"
-"Cazzo", penso, e nel frattempo il cinese fa in tempo a dirmi che pure l'altra 50 che ho in mano è falsa.

L'unica cosa che mi viene in mente è " Sono un pelotudo". Il pelotudo, secondo le lezioni di castellano ricevute dalla scuola Cordobese, è lo stadio successivo del boludo, lo stadio di riconoglionimento avanzato. Quel demente del tassista mi ha fottuto eccome. Mi ha cambiato sotto il naso una banconota da 50 e in più me ne ha rifilata un'altra falsa come resto dei 100 (veri) che gli ho dato.
E mi incazzo allora. Non con il Papa e il Vaticano, i Vescovi e tutti gli ordini clericali, come mio solito, ma con quel cazzone di me stesso. Cazzo, arrivi all'ultimo giorno di due mesi senza che ti abbiano fottuto niente e che fai? ti fai fregare da un coglioncello di tassista che sai benissimo che sta facendo di tutto per rubarti qualcosa? Non ci siamo Fa'. Si vede che sei di Campobasso e non di Napoli. Vabbe' che alla fine mi ha fregato si e no 20 euro, ma  il principio.

Incazzato nero me ne ritorno in ostello con il mio fardello di Yerba mate e mi metto a pensare cosa fare. Volevo andare alla Boca oggi, a fare un giro nei vicoli, ma è chiaro che la giornata si sta mettendo male. In più ho sonno, sento che il viaggio è finito già ieri sulla spiaggia di Cabo Polonio, nel momento in cui sono uscito dall'acqua dell'oceano. Vado a dormire mezzora, ripartiamo dalle basi.
A mezzogiorno e mezza mi sveglio, cazzeggio un po' su internet e poi mi metto in marcia. Andiamo a vedere 'sta minchia di Boca. Ci sono stato, si, a vedere la partita alla Bombonera, ma non ci ho ancora camminato. Decido di portarmi tutto con me, cellulare, macchina fotografica, portafoglio, documenti. In fondo vado solo nel quartiere che pare essere il peggiore di Buenos Aires. Vado in autobus pero': sono stanco e non mi va di camminare, ho paura che mi fottano tutto e non voglio che accada nell'ultimo giorno di viaggio.

-"Me ne vado al caminito, faccio un giro e chi si è visto si è visto"

Il Caminito è il posto più turistico della Boca, un vicolo con case tutte colorate dove ci sono di continuo spettacoli di tango e minchiate simili, finte veraci ma in realtà vere come le mie banconote da 50. La vera Buenos Aires sta due vicoli più in la', dove bazzicano i ragazzi che non vanno a scuola o magari lavora qualche vecchio nel suo negozio di frutta. Questo del Caminito, immagino, sara' il solito spettacolo "che si, comunque lo devi vedere, stai a Buenos Aires e che fai, non ci vai?".

Scendo dall'autobus 29 e sono proiettato in mezzo alla gente. Altro che paura di farmi fottere la macchina fotografica. Qui pure le turistelle americane che a Napoli, girando per Forcella, resterebbero si e no in mutande,  girano con la reflex e fanno a gare a chi ce l'ha più grande, come gli adolescenti nei bagni delle scuole. Io con la mia piccola Lumix compatta non riesco a fotografare niente che sia vero. Mi escono foto di merda, e invece vorrei aver fotografato quel minchione del tassista che ora starà raccontando ai suoi amici quanto io sia stato coglione.
Mi aggiro nei vicoletti colorati in mezzo ai turisti, abbastanza spaesato. Qui di gente di Buenos aires ce n'è ben poca. Lo vedo osservando le tette delle ragazze. Quelle di Buenos Aires in media hanno una grandezza da lasciarmi ogni volta stupefatto, invece qui le tavole da surf abbondano. Questo dell'abbondanza del materiale pettorale tra l'altro è un fenomeno strano. Non capisco se il sindaco abbia imposto una taglia minima da raggiungere al quindicesimo o diciottesimo anno di età per avere la residenza nella capitale, oppure se siano gli ormoni dell'asado a fargliele crescere cosí tanto. Va be', penso un minuto a tutto ciò, mi riconcilio con il mondo e comincio a parlare con un musicista, suonatore di bandoneón, che mi dice come i bandoneón ora costino un sacco, che non se ne trovino piú e, tra l'altro, che qualche tempo fa anche a lui rifilarono una bella banconota da 100 falsa, e lui se la tiene sempre nel cappello che porta con se per ricordarsi di non farsi fregare.

-"Guarda, qui anche le banche possono darti banconote false"

e io intanto penso a quanti panini debba ancora mangiare per poter crescere e capire le dinamiche di questo luogo.
Saluto il musicista e giro un paio di angoli in più. Eccomi su un campo da calcetto in cemento dove trionfa la scritta " Republica de la Boca" e dove quattro ragazzini stanno giocando. Già l'aria è diversa e le foto che scatto di nascosto sono migliori della merda di prima.

Dieci minuti di passaggi e tiri in porta di quattro ragazzini sconosciuti mi danno altra forza e convinzione. Adesso sono più tranquillo e posso farmi un giro come si deve per questo quartiere.
La Boca è un quartiere creato praticamente da immigrati, principalmente italiani. È fatto da casette, vicoli, negozietti e parecchi delinquenti pronti a derubarti, a quanto dicono. In pratica l'immigrazione italiana ha messo su questo quartiere e l'ha reso cosí pericoloso com'è adesso. Chissà che italiani vennero qui, magari ex galeotti, o forse brava gente che vivendo in povertà si dedicò alla malavita. Si sente nell'aria che c'è molta Italia qui, si vede nei profili dei vicoli, nello sfattume dei ragazzi che giocano sui bordi dei secchi dell'immondizia, di quelli fermi all'angolo ad aspettare chissà chi, di quelli seduti davanti alle botteghe che ti guardano quando gli passi davanti forse pensando " Che cazzo è venuto a vedere questo qua?!".
Un giretto qui, in questo barrio nel sud del mondo, glielo farei fare a quei decerebrati che discriminano gli immigrati e che si vantano di avercelo piu' duro. Fatevi un giro qua, e mentre vi sentirete cosí rincoglioniti per l'intensità dell'aria che respirate, senza che possiate rendervene conto i figli dei vostri antenati immigrati qui ve lo metteranno in culo fino a farvelo piacere e vi rimanderanno a casa con un buco più grande per ossigenare meglio i vostri cervelli atrofizzati.

Io intanto mi inoltro nei vicoli, ne faccio quattro o cinque ma poi non voglio strafare e mi rimetto sulla strada principale per ritornare verso l'ostello, nel quartiere di San Telmo. Sono soddisfatto del giro, seppur breve, nella parte pi solitaria e meno turistica. Fare di più sarebbe stato imprudente, sarebbe potuto andarmi bene ma avrei rischiato, finendo nel vicolo sbagliato, di ritornare a casa senza niente, forse in mutande.
Mi rimetto su Avenida Brown fino ad arrivare al Parque Lezama. Qui la Boca confina con San Telmo e Barracas. Scatto due foto ai bimbi in altalena e mi ritrovo su un campo di calcetto in terra. Beh, campo di calcetto non proprio: è una parte di un parco, stretta tra due strade, dove ci sono tre porte da calcetto allineate, come se due fossero le porte vere e una marcasse il centrocampo. I ragazzi, infatti, giocano come se la porta di mezzo non ci fosse.
L'atmosfera è rilassata, genuina e io rimango ipnotizzato. In un attimo comincio a parlare con i ragazzi e, ovvio, in due attimi sono a giocare. Il parco è bello, i ragazzi bravi, ma c'è qualcosa che manca, me ne rendo conto, qualcosa che non ho ancora visto.
È il vecchio, il pensionato che sta sulle panchine dei parchi a prendere il fresco d'estate.
Ci metto un minuto a scoprirlo. Inizio a giocare con il mio borsello a tracolla ma dopo pochi secondi capisco che non posso farlo, è troppo scomodo e in più, pericoloso per la macchina fotografica. Chiedo allora ad un ragazzo:

-"Posso lasciarlo qui, sotto un albero?"
-"No, è pericoloso",

 mi risponde lui che gioca a torso nudo con la maglietta in mano.

"però puoi lasciarlo a lui, è una persona di fiducia"

È il vecchietto, in realtà un signore sulla settantina che si guarda la partita da una panchina lí vicino e tiene le cose dei ragazzi, tutto tranne la maglietta del ragazzo a torso nudo( non posso pretendere di capire tutto): i borselli, i soldi, gli occhiali da sole. E in un attimo io mi fido di questa figura. Fino a un minuto prima non ci sarei arrivato a pensare che il modo più sicuro per tenere il tuo borsello nel quartiere più pericoloso della cittá, fosse darlo ad una persona che non conosci e con cui non hai scambiato neanche una parola. Uno sguardo è stato abbastanza, e poi la rassicurazione dei ragazzi, altri sconosciuti in cui ho riconosciuto la sana passione di correre dietro ad un pallone in mezzo agli alberi.

È un po' il rimescolarsi delle cose e il ritrovare quelle con cui hai un'affinità. Il passare il solstizio d'estate in un posto da cui ti catapulterai lontano, nel più profondo inverno, passando sopra il tropico del capricorno, sopra l'equatore e poi sopra il tropico del cancro per ritrovare nell'estremità opposta quel senso di casa che ho sentito qui nel sud del mondo.
Il trovare, per pura casualità o per innata affinità, un'armonia insperata parlando e correndo con ragazzi che non rivedrò piú nella mia vita.

Domani ritorno a casa.

mercoledì 1 gennaio 2014

Il primo dell'anno a raccogliere fiorellini

Tanto tempo fa, quando io ero piccolo, le persone mettevano macchine trasportatrici da tutte le parti.
Treni che andavano da una parte all'altra delle città e treni ancora più grandi che giravano il mondo, e anche scatole che salivano sulle montagne, e addirittura sedie che stavano sospese su dei fili che andavano su e giù per colline e monti. 
Le persone ci andavano, forse perché avevano fretta di salire in alto. Si, penso fosse per questo motivo. Ma poi avevano anche fretta di scendere. In inverno indossavano delle tavole sotto i piedi che li facevano scivolare velocissimi sulla neve. I piedi si incollavano a queste tavole, chiamate sci, che trasportavano le persone verso valle. Io pensavo che avessero fretta perché avevano dimenticato qualcosa, forse la merenda, o forse di dire alla mamma, o alla nonna, che erano usciti per andare sui monti. Ma poi risalivano e scendevano di nuovo in tutta fretta.
Allora cominciai a farlo pure io, e quando incontravo qualcuno gli dicevo: 
-"Buongiorno signore, mi scusi ma vado di fretta!" 
E poi risalivo di nuovo. Era divertente e tutto andava così veloce intorno a me, ma poi diventò meno divertente e poi mi cominciava ad annoiare, così io di nuovo cominciai a chiedermi il perché di tutta quella fretta. Io non volevo andare di fretta perché volevo fermarmi a vedere come fosse la neve e a fare tante curve, che pure mi piacevano. Ma non capivo perché mi piacesse tanto fare curve a destra e sinistra giù per i monti. Però mi piaceva, ma non potevo parlarne quasi con nessuno, perché tutti sfrecciavano veloci verso valle.

Sempre tanto tempo fa, ma quando io ero ormai più grande di quando ero piccolo, mi trovavo su una montagna che si chiama Monte S'Arrabbia. Era il primo giorno dell'anno del 2014 e io mi ero svegliato presto perché mi avevano detto che era bello fare su e giù per le montagne proprio in quella mattinata.
Io però non volevo rischiare di annoiarmi e allora presi degli sci diversi dai soliti, ma che mi sembravano difettosi: ci mettevo il piede su, ma solo la punta rimaneva attaccata. Il tallone non si bloccava e io avevo paura di fare su e giù per le montagne con questa attrezzatura difettosa. Pero`cominciai lo stesso. Non c'era nessuno e nevicava e poi c'era il sole e poi nevicava e poi il sole. Alla fine, quando il sole aveva vinto, su quei pendii del Monte S'Arrabbia era arrivata tanta gente. Andavano tutti di fretta, frettissima, e io, con gli sci difettosi, non riuscivo ad andare di fretta come tutti gli altri. Facevo più curve e mi divertivo, ma tutti andavano veloci veloci e io mi distraevo e non riuscivo a capire dove fossero le curve che io volessi fare.

Quando ormai non riuscivo più a ritrovarmi in questo forsennato su e giù, decisi di fermarmi a prendere il Sole, senza più scendere verso valle e risalire e poi ridiscendere, seduto davanti un rifugio dove anche gli altri sciatori ogni tanto andavano a riposarsi dalla stanchezza di tutto quel corri corri. Ma quando ci andai io non c'era quasi nessuno. 
Davanti a questo rifugio, una casetta sui pendii del Monte S'Arrabbia, c'era una bella terrazza e qualche panchina, dove io mi sistemai, proprio di fronte al Sole che splendeva nel cielo. C'era silenzio e quasi mi addormentai, quando poi riaprii gli occhi svegliato dalle voci di due bambini. Stavano rimuovendo il ghiaccio che si era formato là dove gli sciatori lasciavano i propri sci. Il padre del bimbo più grande dei due gli aveva detto:
-"Pulite tutto il ghiaccio, perché gli sciatori vanno di fretta e se c'è il ghiaccio diventa difficile muoversi e devono poi andare più lentamente e non si divertono. Pulite tutto!" Così i due bimbi si erano messi all'opera. Io avevo lasciato i miei sci dove loro due stavano lavorando. Poi si misero ad osservare proprio i miei sci, appoggiati in un angolo.
Quello più grande dei due aveva l'atteggiamento sicuro. Il più piccolo, invece, era curioso, stupito. Io mi distrassi per un attimo dal Sole e cominciai a prestare attenzione ai due bambini.
-"Ma che sci sono questi"?, il piccolo si rivolgeva al più grande.
-"Non lo vedi? sembrano diversi, ma sono come tutti gli altri."
-"No, no. Lo vedi, se uno mette il piede qui, lo attacca agli sci con i suoi scarponi, questa parte rimane staccata!"
-"Il tallone?"
-"Si, il tallone rimane staccato! A che serve? Forse è rotto o difettoso?"
-Ma no!", rispose sicuro il più grande dei due, che si era alzato gli occhialini da sole che gli nascondevano gli occhi. " Il tallone si può agganciare. Ora sembra staccato perché poi si riattacca quando si aggancia lo scarpone. Me lo ha detto mio padre." E, riabbassando gli occhiali da sole a coprire gli occhi, tornò alla sua attività di toglighiaccio.

Il bimbo più piccolo, però, non era convinto. Tutti gli altri sci che aveva visto avevano un sistema diverso di attaccare il piede allo sci, e il tallone, in tutti gli altri sistemi che aveva visto, rimaneva ben attaccato. Punta e tallone attaccati allo sci. Il suo amico più grande, no, non aveva ragione. Si era sbagliato, o forse lo aveva addirittura imbrogliato. 
Ma, allora, a che serviva agganciare allo sci solo la punta di uno scarpone? Era possibile sciare in quella maniera? Comodo? Facile? Divertente? Quante curve si riuscivano a fare? O era possibile andare solo dritti?
Il bimbo si guardava intorno come a cercare la persona che usasse quegli sci per chiedergli spiegazioni. Ma non mi poteva trovare. Io facevo finta di niente, come se l'unica cosa che mi importasse in quel momento fosse il Sole splendente in cielo. Facevo finta di dormicchiare, ma avevo un occhio e un orecchio ad osservare ed ascoltare i due.

-"Ma si! ho capito!" Esplose all'improvviso il piccolo, richiamando l'attenzione del suo amico.
"Ma certo! Ed è proprio importante che si possa alzare il tallone quando si scia!" disse gioioso al suo amico più grande, che lo guardava un po' stupito, chiedendosi cosa avesse in mente.
"Ora ti spiego. Se uno scia senza agganciare il tallone, allora significa che il tallone lo può alzare, no? E se si alza il tallone allora è molto più facile inginocchiarsi. No?"
-"Si, va bene. Ma perché uno dovrebbe inginocchiarsi mentre scia? Vedi che non abbiamo tempo da perdere, dobbiamo lavorare se no mio padre s'arrabbia!"

-"Ma come, perché!? Lo sai cosa c'è sotto la neve sulla quale le persone sciano? Dei prati! E cosa cresce nei prati? Dei fiori, no? Magari di quelli piccoli, dei fiorellini. Ecco, allora uno sciatore fa una curva e poi un'altra, poi vede un fiorellino e fa una curva, si inginocchia e prende il fiore, e poi fa un'altra curva e ne prende un altro, e poi ancora una e…
-" E che fa, scende giù con un cesto di fiori? Ma dai, vieni qui a togliere il ghiaccio invece di perdere tempo!"

-"Ma no! Uno i fiori mica li prende per se stesso. Li prende per fare un regalo a qualcuno.
Allora ecco che lo sciatore curva, per esempio verso sinistra, si inginocchia con la gamba sinistra e con la mano sinistra coglie un fiore. Poi curva a destra e si inginocchia sulla gamba destra e con la mano destra ne prende un altro. Ma nel frattempo di certo avrà incontrato magari una persona a cui regalare il fiorellino. E allora, il fiorellino che aveva nella mano sinistra, dopo averlo colto e dopo aver fatto un'altra curva, lo dona a chi ha incontrato, e nel frattempo con la mano destra ne prende un altro, da donare alla curva successiva."

-"Non è vero! Gli sciatori vanno di fretta e non hanno tempo per i fiorellini! Non è vero!"

-"Invece io voglio provare! Deve esser divertente, perché si devono trovare tutti i fiorellini sparsi sui pendii, arrivarci vicino e inginocchiarsi per prenderli. Piano! se no si rompono! e poi si devono trovare tutte le persone a cui donarli e andarglieli a portare! Mi divertirò un sacco!"

Io ascoltavo il bimbo parlare di sci e fiorellini. Aveva trovato il senso delle mie sciate e ora si che avevo voglia di continuare e danzare, lento lento, e passare il primo giorno dell'anno a raccogliere fiorellini. 
 
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