martedì 7 gennaio 2014

Tropico del Capricorno - Solstizio a Sud


Quando il senso di mancanza arriva forte tendo a rifugiarmi nei ricordi e a ricercarvi ciò che non c'è nel presente. Non sempre funziona, ma a volte si. Stavolta ho ripreso un testo che era una mail, o meglio, una lettera in formato elettronico, indirizzata ad alcuni amici e persone che potevano capirmi, quattro solstizi di inverno fa, nel 2009, durante l'ultima notte del mio primo viaggio in Sudamerica. Ricordo che ero in ostello e sarei voluto uscire, godermi la notte di Buenos Aires. Ma avevo bisogno di scrivere, così rimasi a produrre queste righe che oggi sono un ricordo prezioso per me.
Le ho rilette e mi è venuta voglia di condividerle qui.

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Oggi arrivo a Buenos Aires in nave da Colonia. L'alba sul Rio de la Plata è stupenda, dà il senso dei grandi spazi e mi tiene sveglio fin dalle prime ore della mattina. Buenos Aires è calda e umida, un po' appiccicosa e quasi vuota nel suo traffico di inizio vacanze. Io faccio la lunga fila  per cambiare gli ultimi pesos uruguagi che mi sono rimasti in 150 pesos argentini ( sembra che i tipi che lavoravano al banco avessero problemi con divisioni e moltiplicazioni), poi mi dirigo alla metro.
Ho con me due zaini.

-" Per non sbagliare all'ultimo giorno prendi un taxi fino all'ostello, che te frega, 'n so' manco 5 euro".

E ho ragione. Fa caldo, in metro ci sara' il casino e io con i bagagli che mi sono portato appresso non mi muovo spedito. Al prossimo viaggio, cazzo, mi porto solo una maglietta e un pantalone. Addosso. Sempre sto zaino pieno di cose inutili che alla fine ti dimentichi pure di avere. Vabbe'.
Salgo su un taxi sgarrupato, che di ufficiale ha solo il colore, giallo e nero, e qualche numeretto impresso sulla portiera. Il tassista non mi piace da subito, e tantomeno il suo aiutante che non fa altro che chiedermi delle monete mentre salgo sul taxi. Io lo ignoro e ci mettiamo in marcia. La direzione è giusta, il tassista inizia a parlare, di dove sei, quanto tempo resti e le solite minchiate. Io intanto vedo di orientarmi nel reticolo di strade di Buenos Aires. So dove siamo, so dove dobbiamo andare e so che devo tenere gli occhi aperti. Con niente il tizio si ferma, sale qualcun altro in macchina e mi fotte tutto. Intanto lui salta allegramente la prima delle traverse avrebbe potuto prendere, poi la seconda e poi la terza. Il gioco e' chiaro, ed è classico, quindi gli dico:

-" Gira a sinistra"
-" Ah si, vero, si, posso girare anche qua"
-" Boludo hijo de puta" (penso).

 Sa che l'ho sgamato, mi costerà un peso in più, forse, quindi non gli dico più niente, anche se lui continua a fare il simpatico.
Intanto arriviamo all'ostello, lui cerca di fottermi un altro peso lasciando acceso il tassametro mentre io gli do i soldi, una banconota da 50. Mi dice:

-"Guarda, questa 50 è rovinata, non me la prende il banco, dammene un'altra"

 Io me lo voglio togliere di torno, pago con una cento, mi prendo il resto, i bagagli e buonanotte. Sono le 9, ho sonno, fa caldo e mi voglio togliere dalle palle ´sto cazzone. Voleva fottermi ma alla fine ha fatto tanto casino si e no per un peso.
Finalmente ho il tempo per farmi i cazzi miei. Rifare lo zaino che straborda di roba per il solito fenomeno della moltiplicazione delle cose. Andare a comprare frutta al mercato di San Telmo e gustarmi ciliege e albicocche. Andare a comprare Yerba mate da riportare con me in Italia. Ne compro uno sproposito (e spero di non dover fare un bagaglio speciale una volta all'aeroporto).
Pago con una banconota da 50 e il cinese del supermercato, in un castellano perfetto mi dice:

-"Es trucha"
-"Como es trucha?"
-"Si, mira, el papiel es diferente, el dibujo tambien"
-"Cazzo", penso, e nel frattempo il cinese fa in tempo a dirmi che pure l'altra 50 che ho in mano è falsa.

L'unica cosa che mi viene in mente è " Sono un pelotudo". Il pelotudo, secondo le lezioni di castellano ricevute dalla scuola Cordobese, è lo stadio successivo del boludo, lo stadio di riconoglionimento avanzato. Quel demente del tassista mi ha fottuto eccome. Mi ha cambiato sotto il naso una banconota da 50 e in più me ne ha rifilata un'altra falsa come resto dei 100 (veri) che gli ho dato.
E mi incazzo allora. Non con il Papa e il Vaticano, i Vescovi e tutti gli ordini clericali, come mio solito, ma con quel cazzone di me stesso. Cazzo, arrivi all'ultimo giorno di due mesi senza che ti abbiano fottuto niente e che fai? ti fai fregare da un coglioncello di tassista che sai benissimo che sta facendo di tutto per rubarti qualcosa? Non ci siamo Fa'. Si vede che sei di Campobasso e non di Napoli. Vabbe' che alla fine mi ha fregato si e no 20 euro, ma  il principio.

Incazzato nero me ne ritorno in ostello con il mio fardello di Yerba mate e mi metto a pensare cosa fare. Volevo andare alla Boca oggi, a fare un giro nei vicoli, ma è chiaro che la giornata si sta mettendo male. In più ho sonno, sento che il viaggio è finito già ieri sulla spiaggia di Cabo Polonio, nel momento in cui sono uscito dall'acqua dell'oceano. Vado a dormire mezzora, ripartiamo dalle basi.
A mezzogiorno e mezza mi sveglio, cazzeggio un po' su internet e poi mi metto in marcia. Andiamo a vedere 'sta minchia di Boca. Ci sono stato, si, a vedere la partita alla Bombonera, ma non ci ho ancora camminato. Decido di portarmi tutto con me, cellulare, macchina fotografica, portafoglio, documenti. In fondo vado solo nel quartiere che pare essere il peggiore di Buenos Aires. Vado in autobus pero': sono stanco e non mi va di camminare, ho paura che mi fottano tutto e non voglio che accada nell'ultimo giorno di viaggio.

-"Me ne vado al caminito, faccio un giro e chi si è visto si è visto"

Il Caminito è il posto più turistico della Boca, un vicolo con case tutte colorate dove ci sono di continuo spettacoli di tango e minchiate simili, finte veraci ma in realtà vere come le mie banconote da 50. La vera Buenos Aires sta due vicoli più in la', dove bazzicano i ragazzi che non vanno a scuola o magari lavora qualche vecchio nel suo negozio di frutta. Questo del Caminito, immagino, sara' il solito spettacolo "che si, comunque lo devi vedere, stai a Buenos Aires e che fai, non ci vai?".

Scendo dall'autobus 29 e sono proiettato in mezzo alla gente. Altro che paura di farmi fottere la macchina fotografica. Qui pure le turistelle americane che a Napoli, girando per Forcella, resterebbero si e no in mutande,  girano con la reflex e fanno a gare a chi ce l'ha più grande, come gli adolescenti nei bagni delle scuole. Io con la mia piccola Lumix compatta non riesco a fotografare niente che sia vero. Mi escono foto di merda, e invece vorrei aver fotografato quel minchione del tassista che ora starà raccontando ai suoi amici quanto io sia stato coglione.
Mi aggiro nei vicoletti colorati in mezzo ai turisti, abbastanza spaesato. Qui di gente di Buenos aires ce n'è ben poca. Lo vedo osservando le tette delle ragazze. Quelle di Buenos Aires in media hanno una grandezza da lasciarmi ogni volta stupefatto, invece qui le tavole da surf abbondano. Questo dell'abbondanza del materiale pettorale tra l'altro è un fenomeno strano. Non capisco se il sindaco abbia imposto una taglia minima da raggiungere al quindicesimo o diciottesimo anno di età per avere la residenza nella capitale, oppure se siano gli ormoni dell'asado a fargliele crescere cosí tanto. Va be', penso un minuto a tutto ciò, mi riconcilio con il mondo e comincio a parlare con un musicista, suonatore di bandoneón, che mi dice come i bandoneón ora costino un sacco, che non se ne trovino piú e, tra l'altro, che qualche tempo fa anche a lui rifilarono una bella banconota da 100 falsa, e lui se la tiene sempre nel cappello che porta con se per ricordarsi di non farsi fregare.

-"Guarda, qui anche le banche possono darti banconote false"

e io intanto penso a quanti panini debba ancora mangiare per poter crescere e capire le dinamiche di questo luogo.
Saluto il musicista e giro un paio di angoli in più. Eccomi su un campo da calcetto in cemento dove trionfa la scritta " Republica de la Boca" e dove quattro ragazzini stanno giocando. Già l'aria è diversa e le foto che scatto di nascosto sono migliori della merda di prima.

Dieci minuti di passaggi e tiri in porta di quattro ragazzini sconosciuti mi danno altra forza e convinzione. Adesso sono più tranquillo e posso farmi un giro come si deve per questo quartiere.
La Boca è un quartiere creato praticamente da immigrati, principalmente italiani. È fatto da casette, vicoli, negozietti e parecchi delinquenti pronti a derubarti, a quanto dicono. In pratica l'immigrazione italiana ha messo su questo quartiere e l'ha reso cosí pericoloso com'è adesso. Chissà che italiani vennero qui, magari ex galeotti, o forse brava gente che vivendo in povertà si dedicò alla malavita. Si sente nell'aria che c'è molta Italia qui, si vede nei profili dei vicoli, nello sfattume dei ragazzi che giocano sui bordi dei secchi dell'immondizia, di quelli fermi all'angolo ad aspettare chissà chi, di quelli seduti davanti alle botteghe che ti guardano quando gli passi davanti forse pensando " Che cazzo è venuto a vedere questo qua?!".
Un giretto qui, in questo barrio nel sud del mondo, glielo farei fare a quei decerebrati che discriminano gli immigrati e che si vantano di avercelo piu' duro. Fatevi un giro qua, e mentre vi sentirete cosí rincoglioniti per l'intensità dell'aria che respirate, senza che possiate rendervene conto i figli dei vostri antenati immigrati qui ve lo metteranno in culo fino a farvelo piacere e vi rimanderanno a casa con un buco più grande per ossigenare meglio i vostri cervelli atrofizzati.

Io intanto mi inoltro nei vicoli, ne faccio quattro o cinque ma poi non voglio strafare e mi rimetto sulla strada principale per ritornare verso l'ostello, nel quartiere di San Telmo. Sono soddisfatto del giro, seppur breve, nella parte pi solitaria e meno turistica. Fare di più sarebbe stato imprudente, sarebbe potuto andarmi bene ma avrei rischiato, finendo nel vicolo sbagliato, di ritornare a casa senza niente, forse in mutande.
Mi rimetto su Avenida Brown fino ad arrivare al Parque Lezama. Qui la Boca confina con San Telmo e Barracas. Scatto due foto ai bimbi in altalena e mi ritrovo su un campo di calcetto in terra. Beh, campo di calcetto non proprio: è una parte di un parco, stretta tra due strade, dove ci sono tre porte da calcetto allineate, come se due fossero le porte vere e una marcasse il centrocampo. I ragazzi, infatti, giocano come se la porta di mezzo non ci fosse.
L'atmosfera è rilassata, genuina e io rimango ipnotizzato. In un attimo comincio a parlare con i ragazzi e, ovvio, in due attimi sono a giocare. Il parco è bello, i ragazzi bravi, ma c'è qualcosa che manca, me ne rendo conto, qualcosa che non ho ancora visto.
È il vecchio, il pensionato che sta sulle panchine dei parchi a prendere il fresco d'estate.
Ci metto un minuto a scoprirlo. Inizio a giocare con il mio borsello a tracolla ma dopo pochi secondi capisco che non posso farlo, è troppo scomodo e in più, pericoloso per la macchina fotografica. Chiedo allora ad un ragazzo:

-"Posso lasciarlo qui, sotto un albero?"
-"No, è pericoloso",

 mi risponde lui che gioca a torso nudo con la maglietta in mano.

"però puoi lasciarlo a lui, è una persona di fiducia"

È il vecchietto, in realtà un signore sulla settantina che si guarda la partita da una panchina lí vicino e tiene le cose dei ragazzi, tutto tranne la maglietta del ragazzo a torso nudo( non posso pretendere di capire tutto): i borselli, i soldi, gli occhiali da sole. E in un attimo io mi fido di questa figura. Fino a un minuto prima non ci sarei arrivato a pensare che il modo più sicuro per tenere il tuo borsello nel quartiere più pericoloso della cittá, fosse darlo ad una persona che non conosci e con cui non hai scambiato neanche una parola. Uno sguardo è stato abbastanza, e poi la rassicurazione dei ragazzi, altri sconosciuti in cui ho riconosciuto la sana passione di correre dietro ad un pallone in mezzo agli alberi.

È un po' il rimescolarsi delle cose e il ritrovare quelle con cui hai un'affinità. Il passare il solstizio d'estate in un posto da cui ti catapulterai lontano, nel più profondo inverno, passando sopra il tropico del capricorno, sopra l'equatore e poi sopra il tropico del cancro per ritrovare nell'estremità opposta quel senso di casa che ho sentito qui nel sud del mondo.
Il trovare, per pura casualità o per innata affinità, un'armonia insperata parlando e correndo con ragazzi che non rivedrò piú nella mia vita.

Domani ritorno a casa.

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