mercoledì 10 marzo 2021

A Lei

Dell’arrivo,

Di Chania, sorella di Venezia

Di Giouchta, montagna sacra

Delle onde di Kokkini Kani

Degli autobus per Archanes

Del labirinto al centro di Irakleio

Del mare, unico vero orizzonte

Del Meltemi

Della via Lattea dalle spiagge meridionali

Dei limoni, degli aranci, degli ulivi

Delle piogge scroscianti e del sole a picco

Delle gole scavate da fiumi ancenstrali

Di pastori, pecore

Di marinai montanari

Di rotte marine

Di guerre, invasioni, e delle terre che ne sono nate

Del caos dei vortici aerei

   e della calma portata dal vento

Di miscugli di umani di tutto il mondo

Di vie che si incrociano

   e di altri vie che si diramano verso nuove scoperte.


Di una, o tante, supernovae

Della materia di cui sono fatti

le querce

   il cielo

     la luna e le stelle

       i sogni e gli umani.





 Di tutto ciò è mia figlia.

Al Viaggio

L’isola l’ho capita

quando l’ho lasciata

galleggiando su quell’acqua

a cui lei è ancorata.


Le sue luci da lontano,

sempre più fioche al proseguir 

della mia rotta,

erano nient’altro che le vite 

che avrei potuto vivere,

le strade che avrei potuto calcare

e le visioni che avrei incontrato su di esse.


Invece no.


I suoi contorni, lineamenti frastagliati

come una chioma d’ulivo,

al mio allontanarmi m’indicavano

gli intagli, i graffi che portava,

nient’altro che i cammini da me percorsi.


Allora vidi i momenti che parevan persi

ma erano il vero me,

e le mie corse 

per cercare nella città 

angoli che mi parevan nulla

ma erano tutta la storia che lì ho lasciato.


Alla ricerca di me stesso:

   chi ha la fortuna di non farlo?

e alla scoperta che la mia natura

è quella di esse perso,

del ricercare,

   che non esiste nel mondo del certo

del respirare,

   che è ricerca continua di nuova aria

del raccontare,

   che è ricerca di linee nuove nel vissuto e nel futuro,

è allontanarsi dall’isola e scoprirne nuove luci.


Ho capito l’isola solo quando l’ho lasciata in nave.

A Creta

Avrei voluto amarti

eppure non l’ho fatto.


Dagli ulivi che sono a popolarti

solo un frutto ho colto.

Delle onde che ti bagnano

solo una m’ha abbracciato.


E di quegli orizzonti che continuano a chiamarmi ogni dì e notte

per essere esplorati

solo uno ho attraversato

per vederne poi altri mille

che non avrei mai immaginato.


Avrei voluto amarti

eppure perché non l’ho fatto?

Perché adesso so di non poterti

scoprire perfetta

senza lo slancio dell’amore,

né saperti sbagliata

senza che l’amore sia finito.


Né tu puoi scoprire di me altro che la tessitura della pelle

perché una carezza è troppo poco per conoscersi.


Ma è fin troppo per sognarsi.

Ricordi che mi mostravi le acque 

del tuo mare 

camminando per Irakleio

giù fino alla fortezza?


Mentre intorno nessuno poteva

immaginare i nostri sogni

al sicuro, celati dalla tua drammatica

bellezza

di storie così ardite

che dall’antico osano giungere

fino al presente.


E poi Dia,

quell’isola che mi indicavi ogni giorno,

affacciata sulla fortezza,

una linea dal fascino

di un domani inarrivabile,

uno specchio deserto

di tutta la tua storia.

Come l’amore tra di noi

uno specchio deserto di noi stessi.


Dalla cima dei tuoi monti 

Dia l’accarezzavo con un dito

solo perché si trovava lì,

pur senza aver capito

perché ne fossi innamorato.

Dia era un riflesso

del nostro amore,

a portata di mano e inafferrabile,

che esiste solo nel gesto dell’accarezzare

e fugge a ogni possesso.


Avrei voluto amarti

e allora l’ho fatto

quando ero distratto

nei ritagli di tempo

per salvarmi dai miei dubbi

e difendermi dalla mia certezza

di non essere abbastanza.



 
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