martedì 26 marzo 2013

Uraoaru


Una volta, non tanto tempo fa, esisteva una razza di uccello marino dal nome che nessuno ricorda.
Aveva grandi ali piumate che cambiavano forma al cambiare del vento. La sua struttura era così mutevole da renderlo resistente a qualsiasi libeccio o maestrale, ma al contempo così delicata da frantumarsi in qualsiasi pioggia.

Si librava in alto durante la notte, si camuffava nel buio del cielo serale e spiccava il volo quando il tramonto era ormai lontano nel tempo e ben prima che il sole potesse riapparire all'orizzonte.
Si nutriva dei pesci che nuotano nelle burrasche invernali dei mari nordici e oziava in letargo durante le lunghe giornate estive, quando il lasso di tempo tra alba e tramonto è così breve da non consentire un volo d'adeguata bellezza, respiro e durata.

Questo uccello dalle grandi ali verdi, con striature blu e rosse, viveva circa undici anni e nasceva alla morte della propria madre. Una razza orfana per la sua stessa natura, priva di cure parentali. Una razza di figli unici, e della quale ogni generazione non riceveva eredità alcuna dalla precedente.

Uno studioso che viveva a Öns, un'isola dell' arcipelago di Nemloh, aveva dedicato la propria vita alla ricerca del significato dei suoni che questi uccelli emettevano. Questo studioso, il cui nome è andato perso assieme a quello dell'uccello, era stato pescatore fino alla scomparsa del padre, risucchiato dalle acque durante una battuta di pesca in un grande fiordo dalle correnti troppo agitate.
Del padre ricordava la bocca spalancata come a urlare, ma nei suoi ricordi non v'era nient'altro che il continuo scrosciare delle onde oceaniche sulla prua del peschereccio, come un rumore che ricopriva le urla del padre e mandava all'oblio i suoi primi undici anni di vita.

Aveva continuato a lavorare su pescherecci per altri undici anni.

Dopo di che, smise di pescare per commercio, vendette la sua casa a un petroliere, e si mise in viaggio, sulla sua barca, alla ricerca del padre, vivendo di ció che pescava e scambiando spesso il suo pescato con cibo degli abitanti delle isole visitate durante il proprio peregrinare.
Il buio delle notti oceaniche lo aveva avvicinato molto a questo uccello, presenza pressoché costante dei suoi viaggi notturni, fino al punto che il pescatore riuscisse a decodificare i segnali inviatigli dall'uccello e a costruire, con quei suoni, vere e proprie strutture rassomiglianti a quelle di un linguaggio.

Quando era ormai vecchio, ma mai stanco, gli erano rimasti pochi scogli da visitare nel nord dell'oceano Atlantico, e comunicava con nessun altro che l'uccello notturno. Fu così che, dopo una giornata di abbondante pesca, ritornò a Öns, ancorò il peschereccio al largo della sua isola natale per undici giorni e scrisse un trattato completo sul linguaggio usato dall'uccello. Elencò tutte le parole che era riuscito ad imparare e a tradurre, descrisse la struttura basilare della lingua con cui l'uccello comunicava.

Poi, nei successivi undici giorni, usò tutto ciò per scrivere un racconto.

Scoprì, quando il racconto fu finito, che l'uccello non conosceva la parola "madre", e che lui non gli aveva mai parlato, nei loro dialoghi, di suo padre.
Fu cosí che aggiunse una parola al dizionario, unendo i due suoni che significavano "origine" e "vita". Uraoaru sarebbe stato, fin da allora, il nome con cui l'uccello sarebbe stato conosciuto nel mondo, e il suono che significava "madre", nella lingua del volatile.
Era anche il titolo del racconto del pescatore.

Tutto questo mi fu raccontato, nient'altro che pochi giorni fa, da una vecchia signora di Öns, che avevo raggiunto dopo ventotto ore di navigazione notturna, durante le quali mi era sembrato anche di scorgere il volo dell'uccello dalle ali verdi.

Mi disse che fu lei a ritrovare i libri, tra i relitti di un peschereccio che si era schiantato, privo di timone e timoniere, nel porticciolo.

Mi disse che riconobbe la calligrafia.

Mi disse che suo figlio era sordo, e mi disse di tornare a casa. ``Sempre'', mi disse.

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