martedì 29 novembre 2022

δ Ursae Majoris

Qui sulla Terra diciamo che una stella si trova nella fase di sequenza principale quando riesce a usare l'idrogeno nel suo nucleo per riuscire a brillare e splendere nel cielo. Formatasi chissà come e quando, dalla massa decisa da chissà quale sorta di DNA stellare, ogni stella all'inizio della propria vita è composta quasi totalmente dall'idrogeno. Dall'elemento più semplice che esiste nell'universo conosciuto, e quello che occupa la prima posizione in alto a sinistra nel sistema periodico in cui ci divertiamo a catalogare gli atomi che popolano il cosmo. 

Così, avendo pressoché idrogeno e poco altro, una stella comincia a collassare su se stessa finché gli atomi sentono di stare un po' troppo stretti e allora si organizzano, si uniscono l'uno con l'altro in un processo che libera un'enorme quantità di energia. L'idrogeno inizia così a diventare elio proprio lì dove sente più forte la pressione del mondo esterno, che sembra volergli crollare addosso, nel centro della stella. Si trasforma in elio, l'Idrogeno, e perde un po' di se stesso, allora, rilasciandolo attorno a sé. Nel centro della stella una rivoluzione inizia, e tutti gli atomi di idrogeno pian piano cominciano a mutare, a unirsi l'un l'altro e a rilasciare quell'energia che riesce a contrastare il mondo esterno che allora non può far altro che fermare il proprio collasso. La stella resiste, allora, e rimane stabile, e quest'energia pian piano raggiunge la superficie esterna della stella e scappa a perdifiato per il cosmo, arrivando talvolta fino al nostro occhio. Le stelle in cui è in atto questo processo rivoluzionario di massa dell'elemento più semplice e comune dell'universo, del lavoratore più umile, dell'operaio più basilare del cosmo, noi umani diciamo si trovano in fase di sequenza principale, perché, nella nostra ossessione di voler catalogare tutto, in una qualche maniera queste stelle siamo riusciti a porle tutte in riga, l'una dietro l'altra, dalla più piccola alla più grande. Tra di esse il Sole, e tra di esse anche Megrez, δ Ursae Majoris, che ci sembra essere due volte più grande del Sole e se ne sta umile e silente nel cielo boreale ad inviarci la sua luce bianca.

Megrez è la meno luminosa delle sette sorelle che disegnano il Grande Carro nel cielo boreale, eppure quasi trenta volte più luminosa del Sole. La sua luce impiega poco più di ottanta anni per arrivare da noi, il che significa che la luce che Giovanni vide anni fa, rimanendo poi affascinato da questo puntino luminoso nel cielo notturno, lasciò Megrez più di cento anni fa. Nessuno di noi era ancora nato, all'epoca. Però questa danza di sguardi che rivolgiamo verso l'alto durante le notti terrestri si trasforma in danza di viaggi nel tempo, e guardando Megrez ci pare di poter tornare nel passato. Guardandola stasera io tornerò a ottanta anni fa. I miei nonni erano nati da un po' e trascorrevano la loro infanzia da qualche parte in Italia. I miei genitori forse erano un'ipotesi, io ero una possibile conseguenza di un'ipotesi, e mia figlia un personaggio di una fiaba utopica. Megrez si vedeva ad occhio nudo ma non si sapeva che fosse circondata da un disco di polveri e, chissà, forse da qualche pianeta. Starebbe a me scoprirlo, questo, non tanto per aggiungere un dettaglio tecnico alla mappa del cielo, ma per curiosità in quello che Giovanni vide in questa stella. Comunque, i miei nonni di notte guardavano di certo il Grande Carro e Megrez, l'inizio della coda dell'Orsa, era lì, con la sua luce inviata ottanta anni prima, quando anche i miei nonni erano nient'altro che un ipotetico futuro lontano e non sapevano nemmeno si sarebbero prima o poi trasformati in passato prossimo, remoto, dimenticato.
Nell'universo ci si perde al solo sguardo, lo avranno pensato anche i miei nonni e i loro nonni, e le stelle come Megrez ci fanno da fari guida. Lontanissime nello spazio, ma nel tempo neanche tanto poi. Cosa sono ottant'anni? Un gradino abbordabile per intravedere l'infinita scala cosmica. 
δ Ursae Majoris mi pare proprio questo, allora, un gradino, un appiglio, con le sue reazioni nucleari e le polveri interstellari, uno scrigno che custodisce i codici del nostro cosmo, e tra questi i sogni che un amico ha condiviso con i suoi compagni di viaggio.

Buon compleanno Giovanni.

mercoledì 10 marzo 2021

A Lei

Dell’arrivo,

Di Chania, sorella di Venezia

Di Giouchta, montagna sacra

Delle onde di Kokkini Kani

Degli autobus per Archanes

Del labirinto al centro di Irakleio

Del mare, unico vero orizzonte

Del Meltemi

Della via Lattea dalle spiagge meridionali

Dei limoni, degli aranci, degli ulivi

Delle piogge scroscianti e del sole a picco

Delle gole scavate da fiumi ancenstrali

Di pastori, pecore

Di marinai montanari

Di rotte marine

Di guerre, invasioni, e delle terre che ne sono nate

Del caos dei vortici aerei

   e della calma portata dal vento

Di miscugli di umani di tutto il mondo

Di vie che si incrociano

   e di altri vie che si diramano verso nuove scoperte.


Di una, o tante, supernovae

Della materia di cui sono fatti

le querce

   il cielo

     la luna e le stelle

       i sogni e gli umani.





 Di tutto ciò è mia figlia.

Al Viaggio

L’isola l’ho capita

quando l’ho lasciata

galleggiando su quell’acqua

a cui lei è ancorata.


Le sue luci da lontano,

sempre più fioche al proseguir 

della mia rotta,

erano nient’altro che le vite 

che avrei potuto vivere,

le strade che avrei potuto calcare

e le visioni che avrei incontrato su di esse.


Invece no.


I suoi contorni, lineamenti frastagliati

come una chioma d’ulivo,

al mio allontanarmi m’indicavano

gli intagli, i graffi che portava,

nient’altro che i cammini da me percorsi.


Allora vidi i momenti che parevan persi

ma erano il vero me,

e le mie corse 

per cercare nella città 

angoli che mi parevan nulla

ma erano tutta la storia che lì ho lasciato.


Alla ricerca di me stesso:

   chi ha la fortuna di non farlo?

e alla scoperta che la mia natura

è quella di esse perso,

del ricercare,

   che non esiste nel mondo del certo

del respirare,

   che è ricerca continua di nuova aria

del raccontare,

   che è ricerca di linee nuove nel vissuto e nel futuro,

è allontanarsi dall’isola e scoprirne nuove luci.


Ho capito l’isola solo quando l’ho lasciata in nave.

A Creta

Avrei voluto amarti

eppure non l’ho fatto.


Dagli ulivi che sono a popolarti

solo un frutto ho colto.

Delle onde che ti bagnano

solo una m’ha abbracciato.


E di quegli orizzonti che continuano a chiamarmi ogni dì e notte

per essere esplorati

solo uno ho attraversato

per vederne poi altri mille

che non avrei mai immaginato.


Avrei voluto amarti

eppure perché non l’ho fatto?

Perché adesso so di non poterti

scoprire perfetta

senza lo slancio dell’amore,

né saperti sbagliata

senza che l’amore sia finito.


Né tu puoi scoprire di me altro che la tessitura della pelle

perché una carezza è troppo poco per conoscersi.


Ma è fin troppo per sognarsi.

Ricordi che mi mostravi le acque 

del tuo mare 

camminando per Irakleio

giù fino alla fortezza?


Mentre intorno nessuno poteva

immaginare i nostri sogni

al sicuro, celati dalla tua drammatica

bellezza

di storie così ardite

che dall’antico osano giungere

fino al presente.


E poi Dia,

quell’isola che mi indicavi ogni giorno,

affacciata sulla fortezza,

una linea dal fascino

di un domani inarrivabile,

uno specchio deserto

di tutta la tua storia.

Come l’amore tra di noi

uno specchio deserto di noi stessi.


Dalla cima dei tuoi monti 

Dia l’accarezzavo con un dito

solo perché si trovava lì,

pur senza aver capito

perché ne fossi innamorato.

Dia era un riflesso

del nostro amore,

a portata di mano e inafferrabile,

che esiste solo nel gesto dell’accarezzare

e fugge a ogni possesso.


Avrei voluto amarti

e allora l’ho fatto

quando ero distratto

nei ritagli di tempo

per salvarmi dai miei dubbi

e difendermi dalla mia certezza

di non essere abbastanza.



martedì 5 novembre 2019

La mariposa del desierto


En un desierto abrasado por el sol, una llanura seca y aparentemente sin vida, un día apareció una mariposa.
Sus alas eran del mismo rojo, casi naranja, de la tierra del desierto, con manchas amarillas, verdes y azules.
Era pequeña en comparación con la inmensa extensión de arena que la rodeaba, y se balanceaba en las ráfagas de viento que barrían el vacío infinito.
Nadie sabía de dónde venía, nadie sabía que la mariposa se encontraba allí.
Tal vez fue una repentina tormenta de arena que la sacó de su lugar de nacimiento y luego la arrastró en un instante tan lejos de su hogar.
Alguien dice que todo sucedió en no mas de unos instantes: la fuerza, el ruido, la violencia de la tormenta inesperada ni siquiera le habían dado tiempo para despedirse de su familia, ni para llevarse nada en su solitario exilio.
Solo lo que llevaba puesto en el momento de su partida permaneció con ella: unos pocos granos de arena de la playa en la que nació como oruga, una gota de agua del oasis en el que se había convertido en una mariposa, un pequeño pedazo de la hoja en la que prefería ir a descansar.
Cuando la tormenta se calmó, la mariposa miró a su alrededor y no pudo reconocer nada: el desierto no era su hogar, y nunca lo había conocido durante sus viajes.
Mientras tanto, en un momento, el sol cegador había casi quemado las alas de la mariposa. Además, había transformado la arena, el agua y el pedazo de hoja que la mariposa había traído consigo en manchas amarillas, azules y verdes sobre las mismas alas.
La mariposa voló por un tiempo y logró encontrar un refugio: una casa vacía, tal vez dejada por alguien que había vivido allí en el desierto en la antigüedad. La puerta estaba abierta y ella entró, pero fue nuevamente el viento quien le jugó una mala pasada. Dio un portazo y atrapó a la mariposa dentro de la casa vacía.
Sin embargo, esta casa también tenía ventanas, bloqueadas solo por unas redes con mallas estrechas, para que nada más que el viento pudiera pasar. Se sintió aún más perdida, por unos momentos, la mariposa. No estaba feliz porque no hubiera querido pasar toda su vida encerrada allí, quería volver a descansar en las hojas de los árboles y volar libre. Entonces dobló las alas así que volvió a ser minúscula casi como una oruga, por lo que se volvió casi tan pequeña como un grano de arena que puede pasar por todas partes. Se acurrucó aún mas y logró pasar a través de la malla de la red que la encarcelaba. Enseguida desplegó nuevamente sus alas en todo su esplendor y se perdió en una nueva corriente de viento, que inmediatamente se la llevó. Algunos dicen que el viento la trajo de vuelta al océano, allí donde, hace algún tiempo, había nacido oruga.

- Dedicada al pueblo saharaui -

domenica 1 gennaio 2017

Recuerdos de Suramérica

Salgo de un bus: estoy en Chaiten.  Mi viaje hacia el norte en la Carretera Austral pasa por aquí.
Salgo y me doy cuenta que no tengo necesidad alguna, en este momento. Solo quiero esperar. Aguardar el futuro, lejos de mi. Aplazar el viaje hasta el día después.
 ¿Cual es la parte mas emocionante de un viaje, sino la noche ante de partir? ¿Las ideas vagas de lo que encontraré? ¿Lo conciencia que el viaje va a pasar?
La pulcritud del inicio es lo que busco en cada trato de mi recurrido.
Miro este oceano del sur, un mar que no conozco y que me parece enorme. Impresión del viajante que hasta ahora se olvidó de usar sus ojos para descubrir. De todas las veces, ¿cual es la que voy a recordar, sino la primera? Miro este oceano del Sur y viajo hacia el norte, un viaje de vuelta. La playa

donde camino lleva señas de destrucción.

Chaiten es una ciudad cancelada por un vulcano que lleva su mismo nombre y queda cerca, detrás de montañas y nubes que veo inminentes. Toda esta ceniza, que juega a ser arena costera, empuja mi sentidos hacia la nieve del norte, que, como este desierto, siento casa y frontera, hogar y hoguera. Hielos ancestrales excavaron fiordos, golfos y calas acá como en Noruega, dejando firmas parecidas: huellas dactilares de glaciares que se mudaron a ser dedos de oceano.

¿Que es mi casa sino un punto donde lo que conozco queda no más que al lado de lo que puedo descubrir? ¿Que es sino la revelación que un día de mi vida es no más que una zona de mi alma?
Si mi casa fuera un lugar, sería donde los caminos hechos mil veces me llevan una mirada nueva cada dia. Si, en vez, fuera un tiempo, por lo tanto sería hoy día, no mas que un pasito antes de las descubiertas que haré mañana. Solo en nuestra imaginación se convierte a ser un entonces, cuando hay miedo de un paso escondido hasta el día siguiente. Siempre es un reconocer, como cada descubrimiento verdadero.

Hay barcos y arboles yaciendo muertos y todavía amenazados por las olas del Pacifico. Yo dejo mi huellas en cola: aunque bien vivas, ya listas para ser borradas por el mar. Es poco mi tiempo aquí, solo lo necesario para decir que volveré, lo que siempre hago: prometer que seguiré prometiendo, esperar de seguir esperando.

Suponía de cruzar el mar en un transbordador, subiendo por la línea costera oriental de la isla grande de Chiloé, y llegar hasta Puerto Montt. En vez me junto a los otros pasajeros, disfrazo mis percepciones con las suyas y vuelvo al bus, hacia el norte. 



(Chaitén, Octubre 2011)

mercoledì 11 febbraio 2015

Origini

Ieri ho fatto una scoperta. Piccola, ovvia, ma fino a ieri mi era ancora nascosta.

Nell'immenso flusso di parole che mi scorrono davanti agli occhi nelle giornate passate davanti allo schermo del computer, una ieri spiccava sopra le altre.

Bisogno.
L'avrò letta mille volte. Fa rima con sogno, ma ha un significato totalmente diverso, addirittura opposto.
Se hai un sogno è perché non hai bisogni, o perché ne hai troppi.
Di certo, sembra che se qualcuno abbia un bisogno, allora no, avere un sogno è proibito. E, di certo, la parola sogno è oggigiorno abusata, o evitata. Per paura, in entrambi i casi.

Quindi vado a fare una ricerca e scopro che all'origine della parola bisogno c'è la parola sunia, che pare abbia un'origine gotica, di un latino medievale.
A sua volta, tale parola ha origine nel latino somnium, che si traduce oggigiorno come sogno.
In-somnium invece vuole dire visione, cioè quanto si vede durante un sogno.
In latino medievale, il sogno è stato trasformato in sunia, una parola dal valore bipolare: impedimento o necessitá, cura.

Sono sempre affascinato dall'etimologia delle parole, forse perché è come visualizzarne il viaggio, lo slittamento, la deriva senza timone tra le onde e le tempeste di un mare di esseri umani.

Il sogno diventa bisogno, allo stesso tempo impedimento o necessità.
Se si rifugia dentro di se, in-somnium, diventa la negazione di se stesso e si vendica donando agli insonni le visioni reali che più si avvicinano a quelle oniriche.
Se scappa da tutto ciò, diviene un'entità misteriosa, spesso confusa. con il desiderio.

Ma, invece, desiderio è una parola che, pur viaggiando tanto, in balia delle peggiori burrasche dell'animo umano, è sempre tornata al suo posto:
de-sidera: osservare intensamente le stelle, il cosmo.
Oppure privarsene e sentirne la mancanza. De-sidera.
 
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