La ragazza dai lunghi capelli rossi. Pelle chiarissima. Un leggero trucco sugli occhi.
Sciarpa di lana grossolana, verde. Cappotto di lana misto a canapa, credo, grezzo, con molto marrone ma tanti colori che sbocciano e affogano nell'intessitura. Immersa nel suo libro di Victor Hugo.
Ha gli occhi verdi, immagino. Non riesco a guardarglieli. Mani semplici, senza smalto. Nessun anello all'anulare sinistro, né al destro. Un anello dorato al mignolo destro.
Scarpe con tacchi, non molto alti, aperte sul collo scarpa così da far vedere le calze scure che le salgono su per le gambe. I capelli le scendono fin sotto il seno. Lunghi. Di continuo fa scorrere le sue mani su di essi.
La vedo non appena arrivo sul marciapiede al binario della metro di Place d'Italie. Sta leggendo. Mi metto affianco a lei ad aspettare il treno. Victor Hugo. La metro di Parigi è piena di persone che leggono. È piena di persone che ascoltano musica ed è vuota di persone che parlano. Credo anche che sia vuota di persone che osservano. Ognuno mi sembra solo una perla che scorre trasportata dal fiume verso una direzione che crede di conoscere e della quale pensa di conoscere il perché.
Legge victor Hugo, il libro è scritto in francese, ma non ne riesco a scoprire il titolo. Legge, i suoi occhi mi sembrano un'estensione delle sue gambe, che si vedono e si nascondono nelle calze semitrasparenti, e non posso fare a meno di notare un rumore che, in quel contesto, è fuoriluogo. Mi sembra qualcuno che sta russando.
La metro di Parigi è, in buona sostanza, un tubo scavato nella terra. Anzi, metà tubo, essendo il suo fondo piatto. È un tubo tagliato a metà, longitudinalmente, con due treni che vi scorrono in mezzo e le persone che corrono aspettano si baciano salutano incontrano o ignorano il mondo sui marciapiedi al lato di essi. Mentre aspetto il treno e sono affianco alla ragazza con i capelli rossi che legge Victor Hugo, sono, quindi, al di sotto di una volta che sorregge la città per far scorrere le persone in sotterranee quotidianeità. Nel punto in cui mi trovo il soffitto è poco più alto di me e dietro di me si trovano le sedie pensate per fare aspettare i treni nella comoda posizione seduta. Seggiolini appoggiati su un alto gradino piastrellato che sembra il bagno di casa mia, colorato di rosso. Dietro di esse, la volta scende e diventa parete, prima di fondersi con il fondo piatto del tubo tagliato in longitudine. E, se alla mia sinistra la lettrice dai lunghi capelli rossi continua a sfogliare le pagine del suo Vicor Hugo, dietro di me, alla mia destra, un uomo occupa due seggiolini una buona parte del loro sostegno piastrellato di rosso, steso, per dormire, riposare, russare, far scorrere la sua giornata riparato dal freddo, sottoterra. Russa, e il suo russare rimbomba in quel tubo gigantesco che diventa ora cassa di risonanza. È un suono grave, intenso e penetrante, che risalta sullo scarso vociare, vibra sui ronzii che riempiono la metro, un rumore che attira l'attenzione della gente che guarda e poi guarda altrove. Io faccio lo stesso. Guardo, e poi guardo altrove. Guardo di nuovo e non so cosa fare. Parigi è piena di senzatetto, ad ogni angolo, ogni fermata della metro, Così come è piena di gente che cammina corre e passa, guarda e finge, si chiude e diventa parte del fiume. Come me.
Il russare aumenta. Mi sembra il battito del cuore rivelatore di Edgar Allan Poe, che aumenta e diventa forte, insostenibile finchè l'uomo che lo ha sepolto non può fare a meno di arrendervisi. Ma questo non è un romanzo, e così il russare viene spazzato via dall'arrivo del treno con il suo rumore devastante, che lo copre e lo sotterra ancor di più, che riporta l'attenzione dei passanti sul percorso da loro prestabilito, sulle proprie giornate, i propri doveri che non posso arrivare tardi se no crolla il mondo, un rumore che fa girare il senzatetto sull'altro fianco per non disturbare i lettori della pensilina, nè i turisti, gli impiegati, gli uomini e le donne d'affari, gli astronomi o altre identità lì di passaggio. Io ritorno nel fiume e confluisco nel treno. Vedo scorrere via l'uomo disteso sulla panchina e vedo sedersi accanto a me la lettrice dai capelli rossi. Nella metro c'è silenzio. Lei continua ad accarezzarsi la seta rossa che le scende fin sotto al petto. Molti si guardano le scarpe o si autoipnotizzano nel proprio telefono intelligente, o smartphone, che pare essere un affare che succhia l'intelligenza dagli occhi e la trasferisce dietro lo schermo. Ce l'ho anch'io. Ma non lo tiro fuori in quel momento. Ho tre fermate prima di Place Monge e penso proprio che la ragazza dai capelli rossi scenderà dopo di me. Si è seduta comodamente, come avesse un lungo viaggio davanti, mentre io sono all'impiedi, aspettando quasi freneticamente di uscire dal tubo e riemergere sulle strade di Parigi, e chiedendomi incosciamente se la lettrice scenderà alla mia stessa fermata, chiuderà il libro e mi permetterà di scoprire il colore dei suoi occhi. Invece lei si alza prima di Censier Daubenton, una fermata prima della mia, si alza mantenendo il libro in modo tale che il suo sguardo possa rimanervi immerso. Si alza e si mette affianco a me. Sembra voglia dirmi: guarda, leggi anche tu. Io leggo un paio di righe e poi le vedo allontanarsi davanti a me, confluire nel fiume che riemerge in superficie e dissolversi nel flusso, smettere di essere letteratura e diventare, come tutto il resto, rumore.
Sciarpa di lana grossolana, verde. Cappotto di lana misto a canapa, credo, grezzo, con molto marrone ma tanti colori che sbocciano e affogano nell'intessitura. Immersa nel suo libro di Victor Hugo.
Ha gli occhi verdi, immagino. Non riesco a guardarglieli. Mani semplici, senza smalto. Nessun anello all'anulare sinistro, né al destro. Un anello dorato al mignolo destro.
Scarpe con tacchi, non molto alti, aperte sul collo scarpa così da far vedere le calze scure che le salgono su per le gambe. I capelli le scendono fin sotto il seno. Lunghi. Di continuo fa scorrere le sue mani su di essi.
La vedo non appena arrivo sul marciapiede al binario della metro di Place d'Italie. Sta leggendo. Mi metto affianco a lei ad aspettare il treno. Victor Hugo. La metro di Parigi è piena di persone che leggono. È piena di persone che ascoltano musica ed è vuota di persone che parlano. Credo anche che sia vuota di persone che osservano. Ognuno mi sembra solo una perla che scorre trasportata dal fiume verso una direzione che crede di conoscere e della quale pensa di conoscere il perché.
Legge victor Hugo, il libro è scritto in francese, ma non ne riesco a scoprire il titolo. Legge, i suoi occhi mi sembrano un'estensione delle sue gambe, che si vedono e si nascondono nelle calze semitrasparenti, e non posso fare a meno di notare un rumore che, in quel contesto, è fuoriluogo. Mi sembra qualcuno che sta russando.
La metro di Parigi è, in buona sostanza, un tubo scavato nella terra. Anzi, metà tubo, essendo il suo fondo piatto. È un tubo tagliato a metà, longitudinalmente, con due treni che vi scorrono in mezzo e le persone che corrono aspettano si baciano salutano incontrano o ignorano il mondo sui marciapiedi al lato di essi. Mentre aspetto il treno e sono affianco alla ragazza con i capelli rossi che legge Victor Hugo, sono, quindi, al di sotto di una volta che sorregge la città per far scorrere le persone in sotterranee quotidianeità. Nel punto in cui mi trovo il soffitto è poco più alto di me e dietro di me si trovano le sedie pensate per fare aspettare i treni nella comoda posizione seduta. Seggiolini appoggiati su un alto gradino piastrellato che sembra il bagno di casa mia, colorato di rosso. Dietro di esse, la volta scende e diventa parete, prima di fondersi con il fondo piatto del tubo tagliato in longitudine. E, se alla mia sinistra la lettrice dai lunghi capelli rossi continua a sfogliare le pagine del suo Vicor Hugo, dietro di me, alla mia destra, un uomo occupa due seggiolini una buona parte del loro sostegno piastrellato di rosso, steso, per dormire, riposare, russare, far scorrere la sua giornata riparato dal freddo, sottoterra. Russa, e il suo russare rimbomba in quel tubo gigantesco che diventa ora cassa di risonanza. È un suono grave, intenso e penetrante, che risalta sullo scarso vociare, vibra sui ronzii che riempiono la metro, un rumore che attira l'attenzione della gente che guarda e poi guarda altrove. Io faccio lo stesso. Guardo, e poi guardo altrove. Guardo di nuovo e non so cosa fare. Parigi è piena di senzatetto, ad ogni angolo, ogni fermata della metro, Così come è piena di gente che cammina corre e passa, guarda e finge, si chiude e diventa parte del fiume. Come me.
Il russare aumenta. Mi sembra il battito del cuore rivelatore di Edgar Allan Poe, che aumenta e diventa forte, insostenibile finchè l'uomo che lo ha sepolto non può fare a meno di arrendervisi. Ma questo non è un romanzo, e così il russare viene spazzato via dall'arrivo del treno con il suo rumore devastante, che lo copre e lo sotterra ancor di più, che riporta l'attenzione dei passanti sul percorso da loro prestabilito, sulle proprie giornate, i propri doveri che non posso arrivare tardi se no crolla il mondo, un rumore che fa girare il senzatetto sull'altro fianco per non disturbare i lettori della pensilina, nè i turisti, gli impiegati, gli uomini e le donne d'affari, gli astronomi o altre identità lì di passaggio. Io ritorno nel fiume e confluisco nel treno. Vedo scorrere via l'uomo disteso sulla panchina e vedo sedersi accanto a me la lettrice dai capelli rossi. Nella metro c'è silenzio. Lei continua ad accarezzarsi la seta rossa che le scende fin sotto al petto. Molti si guardano le scarpe o si autoipnotizzano nel proprio telefono intelligente, o smartphone, che pare essere un affare che succhia l'intelligenza dagli occhi e la trasferisce dietro lo schermo. Ce l'ho anch'io. Ma non lo tiro fuori in quel momento. Ho tre fermate prima di Place Monge e penso proprio che la ragazza dai capelli rossi scenderà dopo di me. Si è seduta comodamente, come avesse un lungo viaggio davanti, mentre io sono all'impiedi, aspettando quasi freneticamente di uscire dal tubo e riemergere sulle strade di Parigi, e chiedendomi incosciamente se la lettrice scenderà alla mia stessa fermata, chiuderà il libro e mi permetterà di scoprire il colore dei suoi occhi. Invece lei si alza prima di Censier Daubenton, una fermata prima della mia, si alza mantenendo il libro in modo tale che il suo sguardo possa rimanervi immerso. Si alza e si mette affianco a me. Sembra voglia dirmi: guarda, leggi anche tu. Io leggo un paio di righe e poi le vedo allontanarsi davanti a me, confluire nel fiume che riemerge in superficie e dissolversi nel flusso, smettere di essere letteratura e diventare, come tutto il resto, rumore.
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