Gli aerei sono un po' delle macchine del tempo. O almeno macchine dello spazio, questo è certo. Prelevano le persone in un posto umano, le portano in un altro posto umano attraversando zone non umane in condizioni che di umano hanno ben poco. Catapultano in posti afosi individui che si trovavano in lande gelate. In solchi scavati tra grattacieli persone che poco prima erano in un borgo medievale, su mari del sud da valli alpine. O anche da un luogo ad un altro suo gemello sul pianeta. Per fare tutto ciò occorre anestetizzare chi si sottopone a questo trauma. Per questo gli aeroporti si spiegano dicendo solo due parole: tutti uguali. Pian piano ci si addormenta prima di sedersi e allacciare la cintura, ci si sente fermi mentre si è veloci 1000 kilometri all'ora, si legge come in una sala d'aspetto di un dentista, inconsapevoli che l'oceano o qualche altra terra sta scorrendo qualche kilometro più in basso di noi.
Io invece ci penso. Guardo in basso dal finestrino perchè sto passando in una zona dello spazio-tempo in cui non sono mai stato. Non riesco ad abituarmi al non-stupore. Non riesco ad appassionarmi agli aeroporti, e nemmeno ad odiarli. Preferisco lo zaino in spalla piuttosto che la valigia nella stiva, le rotaie piuttosto che le turbine. A 10000 metri non si può che essere inconsapevoli, ogni volta.
Sono da qualche parte quasi al di sopra della Groenlandia mentre scrivo. Anzi no, era l'Irlanda, e adesso è passata più di un'ora dall'ultima frase. L'aereo pare avesse un problema tecnico, un qualche strano odore (e giuro che io non c'entro niente!). Insomma, prima di attraversare l'oceano era meglio fermarsi nell'aeroporto più vicino e così ora siamo a Shannon. Scappo a bere una Guinness.
martedì 27 luglio 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento